La spia dell'Isis
​sparita nel deserto

di Flavio Pompetti
Lunedì 13 Agosto 2018, 09:10
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Ha fatto da autista per decine di attentati terroristici dell’Isis, e ha accompagnato per anni aspiranti suicidi verso il luogo delle loro missioni. Ma, al momento cruciale, è riuscito sempre a disinnescare l’esplosivo e ad evitare che si realizzassero per quelle azioni gravissimi sacrifici umani. Sempre, fino all’ultima missione, nella quale la vittima è stato lui stesso.

La corrispondente del New York Times da Baghdad Margaret Coker ha appena raccontato per il quotidiano le incredibili vicissitudini di Harit al Sudani, la spia che si era infiltrata nell’Isis, e che oggi dopo la scomparsa e la quasi certa morte, viene venerato come un eroe nazionale in Iraq. Sudani non aveva compiuto grandi gesta fino all’età di 33 anni, quando ha consentito a cambiare vita in modo radicale. Aveva oziato per molti anni rincorrendo le donne e facendosi espellere dall’università fino a quando il padre lo aveva costretto a trovarsi un lavoro se voleva restare ancora nella casa di famiglia A quel punto era tornato a scuola, aveva accettato un matrimonio combinato dai genitori, e aveva preso a lavorare come sorvegliante presso una centrale a petrolio. E’ stato a quel punto che il fratello Munaf lo ha messo a parte di un segreto: l’intelligence irachena lo aveva arruolato nella Al Suquor (I Falconi), un’unità della massima segretezza che addestrava spie da infiltrare nelle file dell’Isis. Il responsabile nazionale dell’agenzia al Basri aveva avviato il programma nel 2006 con solo sedici agenti, uomini della massima affidabilità che venivano poi istruiti nei campi paramilitari libanesi. Harit accettò di far domanda nel 2013, e fu preso anche lui. L’esperienza che aveva accumulato a scuola nel settore delle comunicazioni gli servì per iniziare a monitorare le conversazioni al telefono e al computer di alcuni leader del movimento jihadista.

Nell’estate del 2014 l’Isis si insediò in una zona a cavallo del confine tra l’Iraq e la Siria e annunciò la formazione del califfato e dello Stato Islamico. Il monitoraggio a distanza non bastava più, occorreva inviare spie di Al Suquor direttamente nel territorio occupato. Harit accettò tra i primi, perché il nuovo incarico aveva finalmente dato un senso alla sua vita, e lui l’aveva abbracciato con entusiasmo. Fu mandato sotto il nome fittizio di Abu Suhaib insieme al fratello nella zona di Tarmiya, un crocevia a nord della capitale sulla quale viaggiavano spesso aspiranti suicidi dell’Isis imbottiti di esplosivo per realizzare attentati a Baghdad. Nei due anni di servizio Sudani ne ha accompagnati 18 in altrettante missioni sventate dai Falconi, e ha evitato il compimento di 30 attentati terroristici. Era seguito da un auto civetta con a bordo Munaf che lo proteggeva a distanza. Harit viaggiava su mezzi forniti dall’Isis che lo aveva ammesso nelle sue fila, con a bordo quintali di esplosivo.

I colleghi dei Falconi lo intercettavano puntualmente, grazie alle coordinate che lui stesso forniva; catturavano o uccidevano i kamikaze, e sequestravano le bombe.
Comunicati fasulli rassicuravano poi i miliziani del califfato che i bersagli erano stati colpiti con enorme successo.Il gioco si è fatto rischioso quando la spia fu colta per la prima volta a mentire ai suoi mandatari: era andato a trovare moglie e i tre figli a Bagdhad, e non nel quartiere nel quale avrebbe dovuto fare dei rilevamenti per una futura missione. I miliziani si insospettirono, scoprirono i microfoni a bordo del pickup con i quali Harit comunicava con i Falconi, e forse erano sintonizzati anche loro nell’ultima missione due anni fa, nella quale lo spinsero sempre più lontano in aperto deserto, in una zona indifendibile dai suoi compagni e dal fratello, che lo ha visto sparire senza poter correre in suo aiuto. La morte di Harit al Sudani non è mai stata certificata, e il mistero sulla sua fine accresce il mito di eroe che oggi lo circonda.
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