Il racconto più puntuale lo fa con voce rotta dalla paura Yav Montano, uno dei passeggeri che era a bordo della carrozza in cui a un certo punto è iniziata la sparatoria nella metro di New York. Appena uscito dalla stazione sotterranea Yav prende il telefono in mano e ripercorre quegli istanti interminabili. «Eravamo quasi arrivati alla stazione della trentaseiesima strada - dice c'era stato un travaso di passeggeri da un altro convoglio e a bordo c'era davvero un affollamento quasi mai visto. Ho sentito la prima esplosione dell'ordigno; ho visto immediatamente il fumo e poco dopo ho sentito gli spari. Poi c'è stata la confusione più totale. I passeggeri si sono tutti ammassati verso il fronte del vagone dove mi trovavo io, ma le porte, anche quelle che comunicano tra una carrozza e l'altra, erano già bloccate, come accade sempre nei casi di emergenza. Ho visto diverse persone che cercavano di aprirle: in tanti sono piombati nella disperazione perché non si poteva uscire da quello spazio stretto, con il sangue che già macchiava il pavimento, e il fumo che toglieva il respiro e ci aveva reso ciechi».
L'INCUBO SUL VAGONE PIENO
L'attacco è avvenuto nel mezzo dell'ora di punta del pendolarismo, mentre la metropolitana era piena di persone che andavano al lavoro, e di studenti che si affrettavano per arrivare a scuola. Come Cemile Toseglu, una diciassettenne al terzo anno del Brooklyn Tech, la scuola di eccellenza che diploma futuri ingegneri ed architetti: «Ho visto una donna cadere a terra, spinta dalla massa di persone che dietro di lei cercavano di allontanarsi il più possibile dallo sparatore.
IL FINTO OPERAIO ARMATO
Una giovane che desidera restare anonima lo ha visto da vicino quel giovane che ha sparato all'impazzata: «Era seduto in fondo allo scompartimento, vestito con la casacca gialla fosforescente dei manutentori della metro. Ho visto che aveva a fianco a sé una valigia, forse quella dalla quale ha poi estratto la granata lacrimogena e l'arma». La divisa gialla ha confuso tutti: «Ho pensato che fosse un impiegato della società municipale dei trasporti ha detto uno degli altri viaggiatori a bordo della carrozza. Ho continuato a pensarlo anche quando ha fatto esplodere il fumogeno. Nella confusione ho persino pensato che potesse trattarsi di una regolare operazione di manutenzione, per quanto folle. Solo il rumore delle pallottole, e poi le urla degli altri, mi hanno risvegliato dal torpore e convinto di quello che stava davvero accadendo». Nei video, comunque, si vedono anche scene di confortante solidarietà. Passeggeri che aiutano chi non può camminare, che tentano di prestare i primi soccorsi ai feriti, per fortuna tutti in condizioni stabili negli ospedali già a metà giornata. Invisibili sono invece le ferite più profonde che un attentato come questo infligge ai superstiti, ma anche all'intera cittadinanza. Menomazioni meno visibili a prim'occhio, ma molto incisive nel lungo termine, come anticipa la testimonianza di Brenner, un'insegnante che viaggiava a bordo del convoglio per raggiungere la scuola elementare nella quale lavora da quasi vent'anni: «Sono nata e cresciuta a New York, e vivo nello stesso quartiere di Brooklyn dove ho abitato da piccola con la mia famiglia. Mi sono sempre ritenuta: New York tough, cioè una dura, resistente alle asperità della vita. Oggi però sento di aver ricevuto un colpo doloroso, e non so quanto mi ci vorrà a riprendermi. Avevo diradato i viaggi in metropolitana in questi due anni di Covid, e solo da poco avevo ripreso il ritmo quotidiano di due corse per andare e tornare dal lavoro. Ora non me la sento di tornare sottoterra per almeno il resto della settimana. E dopo? Dopo chi lo sa?».