Dal braccio della morte alla vita, grazie all'Italia - di Anna Guaita

Paula Cooper con Anna Guaita
Paula Cooper con Anna Guaita
Venerdì 19 Ottobre 2007, 21:19 - Ultimo agg. 27 Maggio, 14:58
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Nell’ottobre del 2007 Paula Cooper ottenne il permesso di incontrare i due giornalisti che avevano fatto conoscere al mondo la sua vicenda: Anna Guaita, inviata del Messaggero , e Giampolo Pioli di Quotidiano Nazionale. I due giornalisti passarono con lei una giornata, nel carcere di Rockville, in Indiana. Paula era tranquilla, anzi orgogliosa del lavoro che aveva fatto per rimettersi in carreggiata, e raccontò delle speranzi di diventare una cuoca, una volta uscita. Ebbe il permesso di portarci in giro per la prigione, e di mostrarci la sua brandina. Nessuna delle detenute aveva il permesso di attaccare foto o oggetti intorno al letto, ma dal cassetto sotto il materasso tirò fori una cartolina: una foto di Giovanni Paolo II.





dal nostro inviato

Anna Guaita



ROCKVILLE (Indiana - 19 ottobre 2007) - Ci aspetta nel grande salone dedicato alle visite dei familiari. Per l’occasione si è truccata con un ombretto verde, e ha messo delle mollette colorate nei capelli. E’ la prima volta in oltre dieci anni che accetta di vedere di nuovo la stampa. E’ composta, tranquilla, si concentra prima di parlare, e spesso la conversazione la porta a riflettere sulla sorte degli altri, di amici che non ci sono più, di compagne di carcere che hanno sofferto.



Paula Cooper ha 39 anni, e non assomiglia più alla giovane assassina disadattata e spaventata che incontrammo per la prima volta venti anni fa, quando era ancora nel braccio della morte a Indianapolis, e ogni mattina si svegliava pensando «mi legheranno alla sedia elettrica, mi uccideranno, e tutti si dimenticheranno di me».



Adesso sente avvicinarsi la libertà, pensa che tra pochi anni potrà rientrare nella società civile, trovare un lavoro, e finalmente dimostrare che tutti coloro che combatterono per la sua salvezza ed ebbero fiducia nel suo pentimento non hanno commesso un errore di giudizio: «Molti giovani che vivono nella violenza non sono stati e non saranno fortunati come me - ammette - La società spesso si disinteressa di loro. Li rinchiude e butta via la chiave. Io ho vissuto tutta la mia infanzia nella violenza, e ho commesso un atto di grande violenza, ma ho avuto la fortuna di trovare sulla mia strada tanta gente che mi ha voluto aiutare. Se non sono impazzita, se non mi sono abbandonata alla disperazione, se ho cercato di trasformare la mia vita in qualcosa di positivo, lo devo a tutti loro».



Una mattina di maggio, nel 1985, quattro ragazzine di colore aggredirono e uccisero a coltellate a scopo di rapina un’anziana maestra di catechismo, Ruth Pelke, di 78 anni, fuggendo con un bottino di dieci dollari. Arrestate nel giro di due giorni, tre delle ragazze accusarono la quarta, Paula Cooper, 15 anni, di essere stata l’ideatrice dell’aggressione. In un clamoroso processo nel 1986, le tre ragazze furono condannate a pene detentive fra i quindici e i trent’anni, e la quarta fu condannata alla pena capitale. Paula Cooper diventava così la più giovane detenuta in un braccio della morte. Se poi non è diventata anche un numero nelle statistiche delle esecuzioni - quasi mille da allora a oggi - si deve soprattutto al lavoro infaticabile dei due avvocati che rilevarono la sua difesa, Bill Touchette e Monica Foster.



Ma l’opinione pubblica italiana ha avuto anch’essa un ruolo non indifferente. Il nostro giornale fu il primo, insieme al Quotidiano Nazionale, a parlare di Paula e a intervistarla più volte. Sull’onda dei nostri reportage, nell’inverno e nella primavera del 1987, l’associazione Carcere e Comunità, guidata da padre Germano Greganti, cominciò una raccolta di firme. Presto vennero in aiuto del sacerdote un’infinità di scolaresche, altri religiosi, l’associazione dei boy scout, personalità politiche e dello spettacolo e perfino la Camera dei Deputati, il Parlamento Europeo e Papa Giovanni Paolo II. Nell’arco di pochi mesi fu raccolto un milione di firme (poi se ne aggiunse un altro milione nel resto d’Europa), e le scatole contenenti quella richiesta di vita e clemenza furono consegnate all’Onu.



Di fatto con quella raccolta cominciava l’impegno italiano alle Nazioni Unite per porre fine alla pena di morte. Sono passati esattamente venti anni da quel giorno, e siamo alla vigilia di un altro grande appuntamento: a dicembre, l’Assemblea Generale del Palazzo di Vetro metterà ai voti la proposta italiana di adottare nel mondo una moratoria delle esecuzioni. «Sarebbe un sogno se a vent’anni da quell’iniziativa che contribuì a salvare la vita di una giovane, ora l’Italia potesse salvare la vita di centinaia di uomini e donne in tutto il mondo»: così si sfoga l’avvocato Monica Foster, che non ha mai smesso il suo impegno contro la pena capitale.



Monica è convinta che l'opinione pubblica internazionale ebbe un peso non indifferente allora nel convincere la Corte Suprema a rendere anticostituzionali le esecuzioni di giovani di età inferiore ai 16 anni, così come, più di recente, ha avuto peso nel convincere i giudici a rendere anticostituzionali le esecuzioni dei malati mentali.



E ora pensa che la moratoria sia un'arma preziosa: «Una volta avrei pensato che la moratoria non fosse sufficiente. Ma col tempo ho capito questo: se interrompi anche per un po’ il lavoro del boia, poi è difficile richiamarlo in servizio. Quindi appoggio l’iniziativa italiana con tutto il cuore!». Monica Foster non è più giovane: anche per lei il tempo è passato, ma non ha mai, neanche per un minuto, rinunciato a lottare contro la pena capitale, e difatti in questi giorni difende ben tre persone che rischiano l’iniezione letale, e la sua bravura è tanto riconosciuta che avvocati da ogni capo d’America le chiedono consiglio.



Ma il tempo è passato per tutti. Don Germano Greganti ci ha lasciato da vari anni. Bill Pelke, il nipote della vittima, il primo a perdonare Paula, è riuscito a creare un’associazione di americani che come lui credono «nel potere della vita contro il potere della violenza». Bill Touchette ha rinunciato alla pratica criminale per passare a quella civile. E delle tre ragazze che furono pronte a buttare Paula nelle fauci del procuratore distrettuale, una è di nuovo in prigione, una è libera, e un’altra è morta: «E’ stata uccisa a botte dal suo compagno - ci racconta Paula stessa -. Povera April, non si meritava una fine così terribile....». Paula nel frattempo ha preso il diploma di liceo e si è laureata in psicologia. Ma la sua strada non è stata facile. Per anni è passata di depressione in depressione, anche perché la sua ”fama” l’aveva resa invisa al resto della popolazione carceraria e soprattutto ai secondini e agli amministratori della prigione.



Poi ha ottenuto il trasferimento a Rockville: «Ci sono prigioni in cui non gli importa nulla di recuperare i detenuti - ci racconta - Qui a Rockville è stato diverso: ti inseriscono in una disciplina rigida e sono estremamente severi su tante cose, ma ti offrono molti servizi e ti aiutano a prepararti per il ritorno nella società». Vista da lontano, su una bassa collina circondata di campi aperti nel cuore dell’Indiana agricola, la prigione potrebbe quasi sembrare un campus universitario, se non fosse che avvicinandosi si vedono le barriere di filo spinato, e l’avvertimento Shoot to Kill!, cioè chi si avvicina troppo rischia di essere ucciso da una delle guardie. Molti altri sono i divieti severi: «Non ci possiamo toccare, noi detenute, neanche stringere la mano. Non possiamo abbracciarci, è vietato».



Niente contatti fisici, perché le autorità vogliono evitare ogni forma di sesso e le passioni che esso porta con sè, con possibili liti, faide e gelosie. E niente regali dall’esterno: «Non possiamo ricevere dolci o regali, solo lettere e fotografie». Anche qui c’è una ragione: i detenuti più ”ricchi” possono poi angariare i più poveri, o comprare favori con le loro ricchezze. «Noi qui siamo tutte uguali - ci spiega ancora Paula - Siamo tutte allo stesso livello. Non c’è nessuna che è più importante di un’altra. Siamo tutti numeri. E a me piace così». Dietro quel filo spinato, dopo aver imparato i complessi regolamenti e i puntigliosi e invalicabili divieti, alle detenute sono anche offerte molte opportunità. Tutte possono studiare, e le aule sono luminose, pulitissime, fornite di computer. Tutte possono frequentare la biblioteca, con le sue poltroncine fra gli scaffali e le grandi finestre che guardano sui prati. Tutte possono andare in palestra, dove spiccano strumenti di ogni tipo e sulla parete sono accese due televisioni a schermo piatto. Tutte possono scegliere di usare il tempo libero per andare in chiesa, o per giocare con i videogiochi, o per camminare nei prati che dividono i quattro grandi dormitori. Tutte godono di assistenza sanitaria, e c’è perfino un ginecologo specializzato nell’assistenza alle detenute in menopausa. Tutte possono scegliere di lavorare e guadagnare qualcosa: «Ora lavoro in una fabbrica dove produciamo divise per tutte le prigioni dell’Indiana. Guadagno un dollaro e 75 al giorno. Non è tanto, ma metto da parte ogni centesimo. Quando uscirò di qui avrò bisogno di un po’ di soldi per compiere i primi passi».



Eppure questa non è una colonia o una vacanza, è una prigione. E non si può dimenticare. Non c’è privacy e non c’è diritto all’individualità. E’ vero che le detenute possono passeggiare e andare in biblioteca, ma devono seguire un turno rigido: le occupanti dei quattro dormitori non possono mai fare attività insieme. Ogni attività è scandita, e anche durante le passeggiate, ad esempio, le occupanti del dormitorio A non possono percorrere i sentieri davanti al dormitorio B: lo spazio può essere superato con la voce, ma non fisicamente. E i dormitori sono composti di grandi stanze con otto letti a castello ciascuna, per un totale di sedici donne. Tutta la vita di Paula è contenuta in un cassetto metallico ai piedi del letto, anche la piccolissima televisione portatile che la notte accende, si posa sul petto e guarda col volume al minimo per non disturbare le compagne.



Lo spazio personale, privato, di Paula non è che un letto a una piazza, abbellito da una coperta con l’emblema dell’Harley Davidson. Se non vuole vedere nessuno, si sdraia, e si tira la coperta sulla testa: «Ma quando posso, preferisco fermarmi fuori, guardare le nuvole che corrono in cielo, i prati, gli alberi lontani. Quelli sono i momenti della libertà». Paula però non è più sola: sua sorella Rhonda e la madre le sono molto vicine. Sembrano dimenticati i tempi in cui la madre, seriamente alcolizzata, tentò di suicidarsi con le due figliolette. I tempi in cui il padre si toglieva la cintura e frustava le due bambine per ogni minima disubbidienza. Le fughe di Paula e Rhonda, nelle violente strade di Gary, capitale Usa del crimine. La polizia che le rispediva a casa dove le attendevano altre botte. Sembra dimenticato quel crescendo di violenze che fecero di Paula un’antisociale alcolizzata drogata, e presto anche un’assassina. Oramai Paula ha trovato una sua pace interiore, e guarda la tv e si stupisce che «oggi a vivere la vita violenta sono bambini di nove-dieci anni!». Vorrebbe tornare indietro, cancellare il male fatto, vorrebbe dimenticare, ma non osa farlo «perché non è giusto dimenticare».



Prega molto e si chiede se non dovrebbe diventare cattolica, perché è convinta che Giovanni Paolo II abbia compiuto un miracolo quando con la sua lettera e le sue parole mosse a compassione il governatore dell’Indiana. Vorrebbe soprattutto rendere orgogliosa sua madre, che è adesso in cura dall’alcolismo: «Mia madre mi dice che a tenerla in vita è la speranza di riabbracciarmi. E io voglio tenerla in vita. Voglio arrivare a darle una ragione di essere orgogliosa di me». Così Paula approfitta dei corsi che la prigione offre, per imparare a scrivere al computer, a pagare la luce elettrica, a scrivere un assegno, a preparare un curriculum: «Quando mi fu commutata la pena di morte in trent’anni di detenzione, mi sembrò che fossero mille anni. Poi ho deciso di dividere il tempo in blocchi di cinque anni, e ogni volta che un blocco finiva, sentivo di aver fatto un piccolo passo. Adesso mancano sette anni. A voi possono sembrare tanti. A me sembrano solo un altro piccolo passo....».