LONDRA Re Carlo III ha sorriso un po’ rilassato solo una volta, nella lunga e faticosa cerimonia di incoronazione all’Abbazia di Westminster. È stato quando la regina Camilla, dopo avere anche lei ricevuto la corona, gli si è avvicinata per porgergli omaggio come prevedeva il rituale. Ha accennato a un inchino, guardandolo negli occhi. Per un attimo, un solo attimo, hanno sorriso, e sembravano dirsi: «Hai visto dove siamo? Ma l’avresti mai creduto?». Insultati e vilipesi per buona parte della loro vita, messi all’indice persino dal libro di un loro parente stretto, ieri erano nel luogo più sacro agli inglesi, appena incoronati dal rappresentante anglicano di Dio sulla Terra, incaricati di regnare in suo nome sul Regno Unito e sui reami d’oltremare. Fuori dall’Abbazia, migliaia di persone li avevano applauditi al loro passaggio e li attendevano per applaudirli di nuovo al ritorno a Buckingham Palace. Non si era mai vista tanta folla festante sul Mall, insensibile alla pioggia che cadeva battente. E improvvisamente, i sondaggi che davano la popolarità della monarchia in declino sono svaniti nel nulla. I contestatori repubblicani erano pochi, e quei pochi erano stati portati via dalla polizia prima di combinare qualche guaio. Solo il principe Andrea è stato fischiato quando è passato sul Mall, ma se lo meritava.
IL RITO PERFETTO
La cerimonia è andata come vanno tutte le grandi cerimonie britanniche: splendidamente bene, con qualche piccolo intoppo subito risolto, con i magnifici soldati a cavallo e a piedi, bagnati fino alle ossa, 7.000 in tutto, e 19 bande musicali a scandirne il passo. Carlo e Camilla sono usciti da Buckingham Palace alle 10,20, le 11,20 in Italia, sulla Diamond Coach, la carrozza più comoda, dotata di ammortizzatori e aria condizionata. Si diceva che Carlo avrebbe indossato una divisa, invece portava l’abito cerimoniale già usato da suo nonno Giorgio VI, con la mantella di ermellino. Sulla porta dell’Abbazia l’ha accolto un ragazzo di 14 anni, Samuel Strachan, il membro più “anziano” del coro: «Maestà, come bambini del regno di Dio le diamo il benvenuto in nome del Re dei Re». Carlo ha risposto: «Nel Suo nome e dopo il Suo esempio io vengo non per essere servito, ma per servire». Le procedure dell’incoronazione di un re inglese sono scritte nel Liber Regalis, che da più di mille anni è custodito nell’Abbazia. La cerimonia è cambiata poco: essenzialmente un rito sacro, adattato con il passare dei secoli ai mutamenti religiosi, politici e sociali nel frattempo avvenuti.
A fianco dell’Arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, Carlo ha percorso la navata con un’espressione assorta, persino un po’ triste, consapevole del momento storico di cui era protagonista. Avrà pensato a quando, nel 1953, a cinque anni di età, era entrato in quella stessa Abbazia per assistere all’incoronazione di sua madre: gli avevano impomatato i capelli in un modo orribile, e si sentiva a disagio. Dietro di lui c’era ieri un altro bambino, pettinato meglio, il principe George, 9 anni, che sorreggeva il lungo mantello del re con altri ragazzi. Quando toccherà a lui, si ricorderà di questo giorno. Carlo era visibilmente teso ed emozionato, preoccupato di sbagliare qualcosa o che qualcosa andasse storto. Ha pronunciato le formule di rito e il giuramento leggendone il testo da un libro tenuto aperto al suo fianco, anche quando si trattava di risposte brevi come “I am willing”, “I solemnly promise to do so”, “I will”. Ha dovuto giurare, lui che in cuor suo crede in un Dio ma pensa anche che non importi da quale religione venga rappresentato, di difendere la fede protestante anglicana, della cui Chiesa è capo supremo. Ma ha introdotto così tante novità nella sua incoronazione da far capire che intende cambiare molte altre cose pur nel poco tempo che, rispetto a sua madre, avrà per farlo.
La parte più sacra della cerimonia è rimasta la stessa, con l’unzione da parte dell’Arcivescovo nascosta agli occhi degli astanti da quattro pannelli disegnati dallo stesso Carlo con un albero che aveva 56 foglie, tante quanti sono gli stati del Commonwealth. Welby ha unto le sue mani, la testa e il petto con l’olio profumato consacrato nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, ripetendo l’unzione di re Salomone descritta nella Bibbia. Lo si fa da secoli allo stesso modo: Elisabetta I, nel 1559, aveva detto che l’olio sembrava grasso, e puzzava. Dopo l’incoronazione con la leggendaria corona di Sant’Edoardo, che Welby ha spinto con cura sulla testa del re per assicurarsi che non cadesse, Carlo ha abolito l’interminabile omaggio dei duchi, dei conti e dei baroni al Sovrano mantenendo quello, obbligatorio, del figlio erede al trono, che si è avvicinato e gli ha detto: «Io, William, principe del Galles, prometto la mia lealtà a te, e fede e verità ti porterò come tuo vassallo, con la vita e l’incolumità. E che Dio mi aiuti». Poi ha baciato suo padre su una guancia. Carlo, commosso, ha sussurrato: «Grazie, William».
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