Ucraina, viaggio nell’Est sotto l’assedio russo. «Siamo pochi e senza cibo ma resistiamo nei bunker»

Viaggio nell’Est sotto l’assedio russo. «Siamo pochi e senza cibo ma resistiamo nei bunker»
Viaggio nell’Est sotto l’assedio russo. «Siamo pochi e senza cibo ma resistiamo nei bunker»
di Davide Arcuri
Giovedì 14 Aprile 2022, 00:28 - Ultimo agg. 18:16
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«I russi sono alle porte della città e noi ci prepariamo alla battaglia finale». Oleksandr Serhiiovych sindaco della città ucraina più ad est del Donbass riesce a mantenere la calma, nonostante tutto. «Siamo senza acqua, senza gas e senza elettricità». Dei 120 mila abitanti che in tempo di pace abitavano a Sjevjerodonec’k «ne sono rimasti a malapena 25 mila», ammette con un po’ di sconforto. Le comunicazioni sono state interrotte dai bombardamenti: «Abbiamo evacuato più persone possibile. Il blocco delle linee telefoniche ha complicato le operazioni e ora non siamo in grado di rintracciare tutti i residenti». E allora in città non resta che prepararsi a resistere come possibile. 

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L’ASSEDIO AEREO

Sjevjerodonec’k è una città fantasma «non esiste un edificio che non sia stato colpito».

I check-point sono stati abbandonati anche dai soldati. Ad un incrocio incontriamo un gruppo di militari intenti a scavare una trincea, in previsione della guerriglia urbana. Ormai la domanda non è se i russi riusciranno ad arrivare ma quando decideranno di entrare. La difese fuori città sono ormai al collasso, è solo questione di tempo prima che lo scontro si sposti nelle vie del centro. Dall’inizio della guerra a Sjevjerodonec’k sono morti almeno 400 civili. L’invasione via terra non è ancora cominciata, ma la novità è l’utilizzo dell’aviazione. Visitiamo un quartiere a sud della città, dove le bombe sono piovute giusto da poche ore. Sacha ci racconta di aver sentito chiaramente il passaggio dell’aereo: «Prima il fischio e poi l’esplosione. La bomba ha centrato in pieno l’ingresso del rifugio - poi abbassa lo sguardo -. Un uomo ha perso la vita, era uscito solo per fumare una sigaretta». Tra gli abitanti nessuno riesce a darsi una spiegazione per quello che sta accadendo: «Chissà cosa volevano colpire, qui ci sono solo case di civili».

QUELLI CHE NON FUGGONO

Il palazzo del comune è stato trasformato in un centro logistico per gli aiuti umanitari, ogni giorno vengono aiutate circa 300 persone e 30 famiglie con bambini. Dalle prime ore del mattino i civili si mettono in fila indiana per ritirare cibo, medicine e pannolini. Irina ha 73 anni, cammina lentamente trascinando un carrellino: «Datemi del cibo, non ho bisogno di altro. Mio marito non può camminare, è costantemente bloccato a letto». Ogni quattro giorni viene qui a piedi, indossando vecchie ciabatte: carica il carrellino con 10 chili di alimenti e una scorta di prodotti per l’igiene e torna a casa a prendersi cura di suo marito. Maicol è un volontario del centro logistico, parla perfettamente inglese e ci spiega perché molte persone hanno deciso di rimanere in questo inferno: «Mia madre è bloccata a letto, ha 89 anni, come faccio a portarla via? L’unica cosa che posso fare è restarle vicino, di giorno vengo qui a dare una mano per non pensare troppo ai problemi». Il più giovane dei volontari ha 17 anni, si chiama Daniel: «Venite con me, vi faccio vedere la casa della mia vicina». A poche centinaia di metri dalla piazza del comune c’è un’abitazione devastata, colpita da un missile grad proprio due giorni fa. «Erano le 9 di mattina, un frastuono incredibile, la casa a soqquadro». La donna non riesce a trattenere le lacrime, mentre ci racconta di quei tragici momenti. Il missile ha colpito in pieno il garage risparmiando la casa: «È stato un miracolo», dice con la voce rotta dal pianto. «I miei bambini sono ancora sotto choc, vorrei andare a prendere mio padre che abita a due isolati da qui ma non me la sento, ho ancora troppa paura».

 

VITA SOTTOTERRA 

L’ultima tappa nella consegna di aiuti umanitari è un bunker del periodo sovietico riaperto per l’occasione: da oltre un mese ci vivono 240 persone. Una città sottoterra che con il tempo ha saputo organizzarsi. All’esterno ci sono le cucine da campo, all’interno i simboli sovietici che riportano indietro alla prima guerra mondiale. Slava ha in braccio suo figlio di due anni e nove mesi che non smette di piangere: «Non ricordo più da quanto tempo siamo qui. È umido, ci ammaliamo di continuo». La disperazione diffusa si mescola a momenti di rabbia. Una donna perde la calma e inizia a inveire contro il poliziotto di guardia: «Non ci pagano lo stipendio da due mesi, siamo senza soldi, non sappiamo più come fare. Abbiamo bisogno di medicine». Prima di andare via ci ferma una donna: parla in inglese e ha un messaggio per i cittadini europei: «Fate tutto il possibile per aiutarci a raggiungere la pace, è l’unica cosa di cui abbiamo bisogno, non chiediamo altro. Non c’è più tempo, non possiamo più aspettare».

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