Guerra in Ucraina, la sinagoga di Kharkiv diventa rifugio per chi fugge

Guerra in Ucraina, la sinagoga di Kharkiv diventa rifugio per chi fugge
di Cristiano Tinazzi
Martedì 8 Marzo 2022, 07:55 - Ultimo agg. 12:54
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KHARKIV Il rabbino capo Shmuel Kaminetsky è attorniato da un gruppo di persone. Sta dando indicazioni per organizzare lo spostamento di una settantina di persone appartenenti alla comunità ebraica di Kharkiv. La grande città ucraina posta a nord, vicino al confine con la Russia, da giorni è sulle prime pagine dei giornali perché teatro di terribili bombardamenti effettuati dalle forze militari di Mosca. Bombardamenti e attacchi missilistici che colpiscono quasi sempre quartieri residenziali e centri abitati. Spesso compiendo crimini di guerra. La città è allo stremo senza acqua, gas, elettricità. Il cibo scarseggia. Tra i vari edifici colpiti, anche i luoghi simbolo della comunità ebraica di Kharkiv. Mercoledì scorso è stata infatti distrutta la sede di Hillel International, la più grande organizzazione universitaria ebraica al mondo. Un attacco che dimostra, se ancora servisse qualche ulteriore prova, che il presidente Putin non intende risparmiare nessuno, tantomeno luoghi di culto e siti legati alle varie comunità religiose presenti nel paese. Quella ebraica qui conta circa 350mila persone. E Dnipro, città industriale nel sud dell'Ucraina, ha anche una delle sue più importanti comunità del paese.

La sinagoga si trova vicino al centro città, sovrastata dal Menorah center, un enorme complesso edilizio con sette palazzi che ricordano il candelabro ebraico. È il centro culturale ebraico più importante del mondo. Ma oggi in sinagoga non ci sono solo gli studenti che leggono la Torah o chi prega. Le poltrone stavolta sono piene di persone con sacchi, sacchetti, valigie. Alcune dormono, stremate. Molte gli anziani ma anche bambini e giovani donne. Sono arrivati tutti ieri da Kharkiv, portati via da quell'inferno per essere in un luogo più sicuro. La prima tappa di un lungo viaggio verso ovest, verso la frontiera. «Dobbiamo aiutare ogni persona che ha bisogno, chi decide di lasciare il paese. Vengono da noi e li aiutiamo ad andare via. Ma ci sono ancora tante persone che vogliono restare, nonostante tutto. Non vogliono andare via», dice il rabbino Kaminetsky.

«Abbiamo sopravvissuti all'Olocausto qui, che ricordano ancora bene quello che hanno passato e ora devo subire nuovamente i bombardamenti, la fuga, la morte.

Stanno rivivendo quella tragedia e noi facciamo quello che possiamo per dar loro una mano. Qui possono riposarsi, mangiare, avere un luogo sicuro e poi stiamo organizzando dei pullman per portarli in diversi luoghi alla frontiera. Quando ho visto tutto questo, le donne gli anziani e i bambini dormire sulle sedie, le valigie riempite alla rinfusa, per scappare il prima possibile, mi sono messo a piangere perché mi sono tornati alla mente i ricordi di quello che abbiamo dovuto subire durante la Seconda Guerra Mondiale», racconta Igor Davidovich Froden, direttore della sinagoga. «L'ho visto con i miei occhi nel 1941 tutto questo. Certo quella era una situazione peggiore, molti sono morti, però mi ha fatto stare male, perché l'ho collegata a quel periodo. Sarebbe meglio, per tutto il mondo, se Putin lasciasse il potere».

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I racconti di queste persone, scappate da un inferno di ferro e fuoco, sono tutti simili: intere giornate passate nei rifugi, il freddo, nessuna possibilità di movimento. Il terrore, l'attesa tra un colpo e l'altro, sperando sempre di non morire, i pianti dei bambini. Una donna è attorniata da un nugolo di ragazzini. Si chiama Romanienka Marina. Ha sette figli, tre suoi e quattro adottati. Il marito è accanto a lei, addormentato, sfinito, riverso su una sedia. «Siamo rimasti nei rifugi per quattro giorni di fila. Abbiamo provato ad andare via in treno ma non ci siamo riusciti perché lui è soggetto alla coscrizione obbligatoria, come tutti gli uomini. Fortunatamente ci hanno portato via e siamo arrivati qui a Dnipro. Con me c'è anche mia madre. Speriamo di riuscire ad arrivare in Polonia. Una associazione di pattinaggio sul ghiaccio che è gemellata con la squadra dove giocano alcuni dei miei figli ci ha offerto ospitalità, ma non posso lasciare mio marito qui. Non ce la farei mai da sola con sette bambini e una madre malata. Se lui non passa con me, rimarrò qui in Ucraina. Non saprei dove altro andare, non ho nessuno». Jakov Syiniakov insegna la Torah al centro culturale ebraico e da anni è maestro di arti marziali miste in una palestra della città. Oggi, insieme alla moglie, è un volontario delle unità di difesa territoriali. «Ho un'arma a casa e non vorrei mai usarla per uccidere qualcuno. Ma se sarò costretto a farlo, la userò. È autodifesa, e questa è la mia terra.

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