Ucraina, Alfredo Bosco fotografo di guerra: «Io, reporter in trincea temo l'effetto propaganda»

Ucraina, Alfredo Bosco fotografo di guerra: «Io, reporter in trincea temo l'effetto propaganda»
di Domenico Giordano
Lunedì 16 Maggio 2022, 10:00 - Ultimo agg. 13:12
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C'è una foto scattata a Kharkiv, quartiere di Saltivka, che riesce a raccontare molto meglio di tante parole la crudeltà inspiegabile della guerra. Di questa come di tutte le guerre: tra le macerie di un palazzo c'erano le foto di un album di famiglia, immagini di vita normale e semplice, come quelle di un pranzo in campagna in un giorno di festa. Una spensieratezza deflagrata come le mura della loro casa distrutta dai bombardamenti russi. Lo scatto è di Alfredo Bosco, fotografato freelance che segue sin dal 2014 la guerra russo-ucraina, le cui foto sono state utilizzate nei giorni scorsi anche dal presidente ucraino Zelensky sui suoi canali social.

Nato a Santa Croce sull'Arno da genitori pugliesi, entrambi originari di Vieste in provincia di Foggia, Bosco collabora con la Luz Photo Agency di Milano ma segue il conflitto anche con collegamenti quasi quotidiani con La 7. 

Alfredo hai seguito questo conflitto sin dall'inizio, solo che nel 2014 la copertura mediatica rispetto a oggi era decisamente più limitata, i social non erano ancora così pervasivi e la propaganda russa neanche così strutturata. In questo nuovo contesto mediale come è cambiato se è cambiato il modo di fare il tuo lavoro?
«È cambiato moltissimo, per diverse ragioni. Proprio perché la richiesta è così alta tantissimi come me, freelance fotografi o giornalisti, si sono ritrovati ad avere richieste più ampie di quello che è il nostro stretto mestiere.

Saper essere inviati televisivi, ma avendo come strumento il proprio telefono, oppure disponibili per tutti quei nuovi mezzi come le dirette dei social network per approfondimenti vari su cosa sta succedendo qui sul campo. Io non mi posso più limitare in questo conflitto a scattare immagini per raccontare cosa sta succedendo, ma essere produttivo su tre campi diversi: la rivista cartacea, la comunicazione via social network e l'intervento come inviato sul campo».

La propaganda russa, a partire dagli account diplomatici delle ambasciate presenti nei principali Paesi occidentali, sta raccontando la necessità di un intervento militare di liberazione della regione del Donbass dal pericolo neo-nazista per restituire a quelle popolazioni il diritto all'auto-determinazione. Il tuo lavoro e quello di altri colleghi invece ci restituisce ovviamente una realtà opposta. Questa battaglia di narrazioni influenza il tuo lavoro?
«Entrambe le propagande sono un ostacolo per il nostro lavoro, parliamo di paesi che sono coinvolti in un conflitto. Quella russa deve motivare quest'aggressione ed è evidente che si poggia su motivazioni molto deboli, quali la denazificazione del paese Ucraina, mentre prima il governo di Putin effettivamente aveva un argomento più solido: difendere i fratelli del Donbass dal rovesciamento politico avvenuto con Maidan. Molto più facile mostrarsi come un difensore, che una realtà che preventivamente vuole estirpare una mentalità di un altro paese sovrano. Le narrazioni di propaganda sono parte integrante di un conflitto, noi giornalisti e reporter dobbiamo affrontare questo ostacolo e riuscire a non diventare strumento inconsapevole loro. Bisogna fare il meglio e riuscire a sentire che il materiale prodotto sia il più possibile coerente con il proprio lavoro. Questo è anche forse il problema maggiore, perché hai la responsabilità di garantire al lettore la trasparenza necessaria».

In questi tre mesi c'è una tua fotografia che più delle altre può essere un'immagine simbolo del conflitto?
«Dopo quasi tre mesi di lavoro non saprei. Ci sono immagini che si collegano molto con il lavoro passato nel Donbass, dove tutto è cambiato ed è rimasto uguale allo stesso tempo, come ci sono immagini che rappresentano il nuovo, basti pensare ai numerosissimi rifugiati e i danni prodotti dai bombardamenti nelle principali città ucraine. Adesso forse una che mi viene in mente è quella di un pompiere a Kharkiv mentre spegne un incendio. Alla fine non è quello che vivono tutti qui in Ucraina? Affrontare un incendio, e affrontarlo nonostante la paura, la violenza ed il pericolo. L'odore di bruciato di un edificio si ripresenta sul fronte e nei quartieri di civili che vivono nelle loro case e si trovano la guerra brutale dentro il loro palazzo perché un razzo ha colpito il luogo dove abitano».

La platform society ha socializzato anche la quotidianità del conflitto con il suo carico di dolore e distruzione, ma ha anche moltiplicato i rischi di info-demia e di fake news. Il tuo lavoro è stato in qualche occasione manipolato per fini propagandistici?
«Sicuramente, non sarei onesto a dire il contrario. Tutto il nostro materiale può essere preso ed utilizzato, anche distorcendolo. Per la comunicazione le nostre immagini finiscono nei social network, ed una foto tolta dal suo contesto può diventare il messaggio per scopi di propaganda. Se da una parte ci sono centinaia di corrispondenti dall'altra ci sono migliaia di utenti e Bot che lavorano per utilizzare le immagini di questo conflitto e supportare la propria propaganda».

I fronti dell'invasione sono diversi e tutti hanno una storia da raccontare. Come e perché scegli di seguirne uno e quando poi decidi di cambiare area?
«Dipende dalla news e dal lavoro sul campo. Ci sono fronti che sono mediaticamente interessanti, altri invece sono importanti perché giornalisticamente non hanno magari un forte connotazione visiva ma possono descrivere bene a lungo termine questo conflitto. Di solito questi sono coperti perché c'è un dialogo tra colleghi che magari conoscono la questione ucraina da più tempo. Un esempio è stato proprio il Donbass che ora è una news ma prima chi è venuto in queste zone ha coperto subito Avdiivka e Pisky dove il conflitto era presente da ben otto anni».

Ci racconti una tua giornata tipo, come ti sposti e quali difficoltà incontri?
«La giornata tipo non esiste, tutti i programmi sono a breve termine. Impossibile dire: starò qui un mese. La sera ci si confronta con i colleghi e si valuta il materiale portato a casa e si capisce il da farsi per il giorno dopo, ma in un conflitto luoghi che erano accessibili il giorno prima diventano off limits altri che invece sembrano lontani e impossibili si aprono. Ci spostiamo in macchina, o con i treni, l'Ucraina è un paese molto grande, e spesso solo andare in un'area o l'altra significa perdere un giorno intero di viaggio. Le maggiori difficoltà che incontro sono gli accessi, e ovviamente la sicurezza. Poi ci sono altre difficoltà come il dover registrare e fotografare il dolore che i civili provano. Nessuno di noi vorrebbe un fotografo al funerale di un proprio caro e noi invece siamo lì a scattare con le nostre macchine. Far combaciare il dovere di cronaca e la sensibilità è sempre una questione difficile».

Un'ultima domanda, se posso, più introspettiva: come riesci a gestire l'emotività di vivere il conflitto dal di dentro e la neutralità che la professione ti impone? Quanto un'esperienza così intensa manipola e trasforma la tua personalità?
«Io ho una fortuna: sono una persona molto distaccata al lavoro. Il paragone più facile che faccio è quello di un intervento medico, dove conta il risultato e non ci si può far rapire dall'emotività. Vorrei dire che sono sconvolto quando vedo scene tragiche davanti a me, ma sono sentimenti che provo quando sono depositati al mio rientro a casa. Mentre lavoro, penso solo a come documentare più efficacemente quello che ho di fronte. Capisco chi invece subisce molto l'emotività psichica e tra colleghi ci si supporta, ma bisogna sempre tenere presente una cosa: noi siamo i testimoni, non le vittime. Sono loro che soffrono, vivono e subiscono questo conflitto, noi scegliamo di venire qui, loro desiderano la pace e vivere di nuovo la propria vita». 

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