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Ungheria e Serbia, cosa cambia in Europa con la conferma degli ultimi governi filo-Putin di Orban e Vucic

Ungheria e Serbia, cosa cambia in Europa con la conferma degli ultimi governi filo-Putin di Orban e Vucic
Ungheria e Serbia, cosa cambia in Europa con la conferma degli ultimi governi filo-Putin di Orban e Vucic
di Gabriele Rosana
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 4 Aprile 2022, 11:51 - Ultimo agg. : 17:41
4 Minuti di Lettura

BRUXELLES - Nelle urne di domenica, Ungheria e Serbia hanno riconfermato al potere (e con una valanga di voti) gli ultimi due sodali europei di Vladimir Putin: Viktor Orbán e Aleksandr Vučić. Due leader di lungo corso accomunati dalle tendenze autoritarie.

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In Ungheria

A Budapest  l’ultraconservatore Orbán fa poker e si assicura altri quattro anni da premier dell’Ungheria con la maggioranza assoluta dei voti e due terzi del Parlamento dalla sua, nonostante l’opposizione corresse unita dietro un candidato comune, Peter Márki-Zay, che si è fermato al 35% delle preferenze e ha accusato il sistema corrotto e la propaganda governativa per la magra performance. In sella ininterrottamente dal 2010, dopo l’uscita di scena di Angela Merkel è lui il leader più longevo dell’Unione europea. Non una buona notizia per le istituzioni comunitarie, che con Budapest hanno ingaggiato un intenso braccio di ferro sul dossier stato di diritto, dall’indipendenza della magistratura alle discriminazioni ai danni della comunità Lgbtq. «Una vittoria così imponente sono certo riescano a vederla anche da Bruxelles», ha infatti dichiarato subito dopo i primi exit poll Orbán, che non le ha mandate a dire neppure al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il quale dal suo bunker di Kiev aveva inchiodato il premier ungherese alle sue responsabilità, accusandolo di essere l’ultimo alleato di Putin rimasto in Europa.

«Ci ricorderemo di questa vittoria perché avveravamo molti oppositori»: non solo i «burocrati di Bruxelles», ma anche «il presidente ucraino», ha scandito Orbán. Il ricordo dei carri armati sovietici a Budapest nel 1956 è sbiadito: nei giorni scorsi l’Ungheria aveva messo in chiaro che non intende dare l’ok a un embargo Ue sulle forniture di energia (gas, petrolio e carbone) in arrivo da Mosca, di fatto stoppando un nuovo pacchetto di sanzioni europee per cui serve l’unanimità. Non è passata inosservata, del resto, poco prima dell’invasione dell’Ucraina, la visita di Orbán al Cremlino per assicurarsi nuovi volumi di gas a buon prezzo di fronte al caro-bollette in tutta Europa. «Non sosterremo misure che mettano a rischio la sicurezza energetica dell’Ungheria», aveva messo a verbale il ministro degli Esteri magiaro, che nelle prossime ore dovrà fare i conti con il crescente pressing di molti Paesi Ue - a cominciare dalla Polonia, finora solida alleata di Budapest - dopo le terribili immagini del massacro di civili a Bucha.

 

In Serbia


Discorso solo in parte diverso per Vučić: alla guida della Serbia dal 2012, ha corso senza credibili avversari, incassando un successo che sfiora il 60% dei consensi. Belgrado, a differenza di Budapest, non è membro dell’Ue ma solo candidata all’adesione (un processo in forte difficoltà visto l’irrisolta questione regionale con il mancato riconoscimento del Kosovo): in virtù di ciò è riuscita a sottrarsi del tutto alla partecipazione alle sanzioni occidentali imposte contro la Russia, a cui si sono uniformati invece altri Paesi dei Balcani. Anzi, la Serbia ha pure dato una mano al Cremlino, mantenendo i collegamenti aerei giornalieri Belgrado-Mosca mentre tutto il resto d’Europa aveva chiuso il suo spazio aereo alla Russia. Insieme a Paesi ben più influenti sullo scacchiere globale - dalla Cina all’India, passando per il Pakistan -, cementa il nuovo asse che approfitta della ritirata europea per fare affari sempre più convenienti con Mosca. 

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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