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Autonomia, il grido ignorato dei giuristi: «Sulla riforma si esprima il Parlamento»

Nel 2019 l'appello inviato al Quirinale, tra i firmatari tre ex presidenti della Consulta: «Garantire l’unità nazionale»

Autonomia, il grido ignorato dei giuristi: «Sulla riforma si esprima il Parlamento»
Autonomia, il grido ignorato dei giuristi: «Sulla riforma si esprima il Parlamento»
di Francesco Bechis
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 21 Dicembre 2022, 01:34 - Ultimo agg. : 11:24
4 Minuti di Lettura

Il Parlamento che non parla, ratifica. L’autonomia differenziata delle Regioni scritta su un atto amministrativo, il Dpcm. Senza veri controlli, prima o dopo. L’allarme che oggi risuona sulla bozza della riforma Calderoli inserita nella legge di bilancio viene da lontano. Era già risuonato all’indomani dei referendum con cui Lombardia e Veneto hanno chiesto allo Stato italiano di cedere poteri e competenze in attuazione dell’articolo 116 della Costituzione. La denuncia? È la stessa sottoscritta da tanti giuristi di calibro - e più velatamente da una parte della maggioranza - per frenare la riforma «spacca-Italia» che porta la firma leghista: il Parlamento non può essere ignorato. 

APPROFONDIMENTI
Tajani: «L’autonomia non danneggi Roma»​
Ministeri spostati da Roma?
Flick: «Questa Autonomia è come una secessione, decida il Parlamento»
Mattarella: «Cittadini hanno gli stessi diritti, a Nord come a Sud»

L’APPELLO
«Siamo fortemente preoccupati per le modalità di attuazione finora seguite nelle intese sul regionalismo differenziato e per il rischio di marginalizzazione del ruolo del Parlamento, luogo di tutela degli interessi nazionali». È questo l’incipit di un appello firmato tre anni fa. Mittente: trenta costituzionalisti. Tra cui tre presidenti emeriti della Corte Costituzionale: Francesco Amirante, Giuseppe Tesauro, Francesco Paolo Casavola. Destinatario: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Le ulteriori forme di autonomia non possono riguardare la mera volontà espressa in un accordo tra Governo e Regione interessata», ammoniva il documento all’indomani dei referendum nordisti celebrati con la benedizione del governo gialloverde. O meglio, di una parte del governo. Sì perché già tre anni fa, proprio come oggi, l’idea di una riforma autonomista ridotta a un insieme di intese blindate tra governo e Regioni, con l’aula chiamata solo a un’approvazione finale, agitava gli animi in maggioranza. Così come fece rumore il documento dei costituzionalisti. A firmarlo, oltre agli ex presidenti della Consulta, giuristi di fama, da Andrea Patroni Griffi a Salvatore Curreri passando per Alfonso Celotto (attuale capo-gabinetto della ministra alle Riforme di FI Elisabetta Casellati). Il grido degli esperti è rimasto, a quanto pare, inascoltato. È vero, notavano allora i giuristi nella missiva al Colle, l’articolo 116 della Carta prevede il voto del Parlamento sulla legge autonomista «sulla base dell’intesa tra lo Stato e la Regione interessata».

Ma non va letto come un via libera a un’intesa in busta chiusa, bollata, da cui l’aula viene lasciata fuori. Semmai, «questa disposizione va letta coerentemente con i principi di unità e indivisibilità della Repubblica e con la funzione propria del Parlamento di tutelare gli interessi di tutti i cittadini e di tutte le Regioni». Non solo: «I parlamentari, come rappresentanti della Nazione, devono essere infatti chiamati a intervenire, qualora lo riterranno, anche con emendamenti sostanziali che possano incidere sulle intese, in modo da ritrovare un nuovo accordo, prima della definitiva votazione sulla legge». E ancora: «L’approvazione parlamentare non può essere solo formale». Ebbene, a leggere le disposizioni nella bozza Calderoli l’appello è rimasto lettera morta. Una su tutte: la previsione per cui i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), i servizi minimi da garantire ai cittadini di ogni Regione, dall’istruzione ai trasporti, potranno essere definiti entro sei mesi con un Dpcm. Un atto amministrativo. Che dunque sfugge al controllo parlamentare, al sindacato della Corte Costituzionale e, di conseguenza, alla verifica ex-post del referendum. Senza contare che l’articolo in manovra, il 143, non comporta «oneri per lo Stato». In altre parole, alla serratissima roadmap del ministro alle Autonomie leghista Roberto Calderoli per fissare i Lep - un ultimatum di sei mesi a una cabina di regia interministeriale, poi la nomina di un commissario - non corrisponde lo stanziamento di un solo euro per spiegare quando e come quelle prestazioni saranno effettivamente erogate su tutto il territorio italiano. 

L’AULA IN DISPARTE
Il passaggio in aula? C’è, ma a giochi fatti e solo al termine della negoziazione tra governo (ministero delle Autonomie) e Regioni. E invece, si legge nell’appello dei trenta esperti, «il ruolo del Parlamento è finalizzato a tutelare le istanze unitarie a fronte di richieste autonomistiche avanzate dalle Regioni che possono andare proprio in danno a tali istanze unitarie». Allora, il monito non fu ignorato da tutti. Mattarella - che oggi predica prudenza sull’autonomia e la «garanzia dei diritti», «al Nord come al Mezzogiorno» - ricevette al Quirinale i presidenti di Camera e Senato Roberto Fico e Casellati. Lei, oggi al timone delle riforme del governo, promise dunque di «tracciare quello che sarà il percorso nelle aule parlamentari». Tre anni dopo, la riforma autonomista da quelle aule potrebbe non passare affatto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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