Berlusconi, Mastella e le persecuzioni dei pm che minano la democrazia

Allarmanti le lacerazioni di inchieste risolte con un nulla di fatto dopo anni

Berlusconi, Mastella e le persecuzioni dei pm che minano la democrazia
Berlusconi, Mastella e le persecuzioni dei pm che minano la democrazia
di Angelo Ciancarella
Venerdì 17 Febbraio 2023, 00:20 - Ultimo agg. 15:06
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Quando la pubblica accusa formula una imputazione e i giudici assolvono, ci muoviamo nell’ambito della fisiologia della funzione giudiziaria, non nella sua patologia. Da chiunque (e a qualunque fine) sia formulata, questa affermazione è falsa. O ipocrita. Non è vera quando riguarda la vita delle persone; ancor meno quando coinvolge l’attività professionale (la responsabilità medica, i concorsi universitari, gli amministratori delle imprese…). Ed è un problema di tutti quando, con i singoli, coinvolge anche la politica e le istituzioni, soprattutto gli incarichi elettivi. Ci preoccupiamo, giustamente, dell’astensionismo e ci chiediamo se incida sulla rappresentatività degli organi eletti (non incide). Ma dimentichiamo in fretta quanto siano gravi per la democrazia le lacerazioni provocate da inchieste che si concludono - non meno di dieci anni dopo - con le assoluzioni. Il caso Berlusconi-Ruby Ter è solo l’ultima di una serie.

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I CASI

Come non ricordare l’avviso a comparire notificato a Napoli al fondatore di Mediaset nel 1994, che precede di poco la crisi del primo governo Berlusconi. Per non dire delle inchieste “Why not” (Catanzaro, procuratore De Magistris) e di Santa Maria Capua Vetere (procuratore Maffei), con l’avviso di garanzia al ministro della Giustizia Clemente Mastella, che determinano prima le sue dimissioni e il ritiro del sostegno al governo Prodi Bis da parte dell’Udeur (del quale era leader), poi la caduta dello stesso governo.
Senza dimenticare che quell’inchiesta - la quale metteva insieme in un grande comitato affaristico decine di imprenditori, politici e massoni veri e presunti - coinvolse la Regione Campania e travolse anche la magistratura, con reciproche sconfessioni, conflitti di competenza, sottrazione di fascicoli e avocazioni, ispezioni, trasferimenti e procedimenti disciplinari, l’ingresso in politica di De Magistris, futuro sindaco di Napoli, le dimissioni del presidente dell’Associazione magistrati (Luerti) e la nascita della giunta Palamara-Cascini.

Non si colse l’occasione per un riequilibrio serio dei rapporti magistratura-politica, ci si illuse di aver voltato pagina.

Non diversamente è avvenuto a livello regionale e in molti comuni, dove le inchieste hanno determinato dimissioni e nuove elezioni, con frequenti cambi di maggioranza, almeno in parte influenzati dal clamore delle inchieste. Sia chiaro, non di rado le inchieste erano, almeno in parte, fondate. Nondimeno, resta la sproporzione fra le prime ipotesi accusatorie e i successivi capi d’imputazione, l’adozione di misure cautelari quasi mai indispensabili (se non a determinare le dimissioni dell’indagato) e la condanna definitiva solo un decennio dopo. È il caso, per esempio, della Regione Abruzzo, della quale Ottaviano Del Turco (centrosinistra) era presidente quando fu arrestato nel luglio 2008. Gli subentrò una giunta di centrodestra e la condanna definitiva ridusse la pena di due terzi rispetto a quella di primo grado.
Mai sia messa in discussione l’indipendenza della magistratura e il suo potere-dovere di svolgere indagini. Ma, a forza di parole d’ordine ed evocazione di sacri princìpi, abbiamo protetto piuttosto l’immunità e l’irresponsabilità di un ordine che si è fatto corporazione, soprattutto nella componente della pubblica accusa. 
Il prossimo giugno ricorrono 40 anni dall’arresto di Enzo Tortora. Trent’anni dopo un pubblico ministero ritenne maturo il tempo per «chiedere scusa» a mezzo stampa. Fu disprezzato da uno degli altri due colleghi, il quale sostenne che non c’era nulla di cui chiedere scusa ed evocò a sua difesa il principio posto all’inizio di questo articolo. Nel frattempo i tre pubblici ministeri, oggi in pensione, hanno percorso brillanti carriere, inclusa l’elezione al Csm e l’incensamento della stampa («Il Maradona della giustizia»!) 

LE RIFORME SUL TAVOLO

Il nodo irrisolto è nel rapporto con la politica, ma la crisi si manifesta per tutti, ingigantita dal fattore tempo, falsamente addebitato al numero eccessivo di fascicoli: si svolgono inchieste clamorose e due anni dopo, a indagini chiuse, si lascia trascorrere anche un anno per formulare l’imputazione: si parli di mascherine o di reati societari, magari con il fallimento dell’impresa nel frattempo avvenuto. Ora la riforma Cartabia prevede termini tassativi, e si spera che non fallisca (molte volte le norme già esistono; la prassi e le omissioni le vanificano).

 

Si rischia però di perdere di nuovo l’occasione per un riequilibrio autentico: dopo quella del rinnovo del Consiglio superiore della magistratura (non per i nomi, ma per le logiche: Il Messaggero del 3 gennaio), resta la delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario. Non bisogna farla decadere, rincorrendo più drastiche riforme costituzionali (se ci sono i numeri, si potranno pur sempre fare, senza rinunciare a ciò che è già possibile) o illusorie commissioni d’inchiesta. Se la politica pensa di riequilibrare attraverso la pena del contrappasso (inquisire gli inquisitori) non solo sbaglia, ma si accorgerà presto di dover mettere anche sé stessa sul banco degli imputati, per aver a lungo alimentato «la guerra giudiziaria (agli avversari) come continuazione della politica». L’espansionismo della pubblica accusa va ridimensionato applicando senza sconti le regole (molte esistenti, poche nuove) e riportando il Csm al pieno svolgimento delle proprie funzioni in tema di esposti e segnalazioni (sempre archiviati), valutazioni di professionalità e procedimenti disciplinari, propedeutici al credibile (oggi non lo è) conferimento delle promozioni e degli incarichi direttivi. A sua volta l’Ispettorato del ministero va riportato al controllo del regolare funzionamento degli uffici - specie per le segnalazioni sulle irregolarità - e della produttività dei singoli magistrati.

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