Dagli asili ai fondi Covid: ecco i criteri ai danni del Sud

Dagli asili ai fondi Covid: ecco i criteri ai danni del Sud
di Marco Esposito
Lunedì 31 Agosto 2020, 08:00 - Ultimo agg. 11:35
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Il meccanismo, a farci caso, è anche un po' monotono: una formula tecnica sufficientemente complessa da scoraggiare chi non è laureato in matematica. E, dentro la formula, criteri in grado di portare più soldi dove già ci sono soldi.

Il meccanismo più noto - talmente noto che i tecnici sono stati costretti a cambiarlo - è quello per gli asili nido. Un comune non aveva asili nido in passato? Il diritto per il futuro diventa zero. Dal 2020 quella formula è stata modificata - sulla spinta delle inchieste giornalistiche e del ricorso di settanta comuni meridionali - e da gennaio non c'è più nessun comune in Italia con diritto zero per gli asili nido. Ma il metodo no, quello non è stato archiviato e anzi si è ripresentato in occasione della crisi Covid.

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La torta più grossa, tra i tanti fondi che il governo ha in tutta fretta predisposto per fronteggiare la crisi, è quella per «concorrere ad assicurare agli enti locali le risorse necessarie per l'espletamento delle funzioni fondamentali anche in relazione alla perdita di entrate connesse all'emergenza Covid-19», fondo istituito dal decreto rilancio all'articolo 106 e che per i comuni vale 3 miliardi di euro. Il fondo va ripartito - la legge lo dice con chiarezza - in base alle minori entrate dovute all'emergenza sanitaria ma anche tenendo conto delle minori spese, rinviando a un tavolo tecnico presso il ministero dell'Economia con la partecipazione di tre rappresentanti degli enti locali. Ed è in quella sede che è stato confezionato il trucco. Ci sono infatti diversi servizi comunali chiamati «a domanda individuale», come le mense scolastiche, per i quali c'è stato un calo delle entrate comunali, perché i genitori da marzo non hanno pagato un servizio inesistente con le scuole chiuse, ma c'è stato anche un calo delle uscite perché le mense non hanno funzionato. Per i comuni su quelle voci c'è un guadagno netto visto che la quota del costo del servizio coperta dalla famiglie è una fetta del totale, in genere il 36%, per cui il comune ha risparmiato, mentre l'azienda che forniva i pasti agli alunni ovviamente ha messo i dipendenti in cassa integrazione. Un esempio per capirsi: un pasto costa 9 euro, 3 a carico della famiglia e 6 del comune; se il pasto non è erogato il comune perde 3 euro ma ne risparmia 9, quindi ha una minore spesa di 6 rispetto al preventivo. Nella formula i 9 euro di mancata spesa non si contano, e si abbatte solo una parte della minore entrata (1 euro su 3) con il risultato che il comune che forniva la mensa si ritrova in cassa un premio in contanti di 2 euro per la mancata entrata, che si somma ai 6 euro della mancata spesa, per un totale di 8 euro per ogni pasto non erogato.

Quindi i comuni che forniscono più servizi di mensa hanno ricevuto un doppio vantaggio rispetto a quelli dove il tempo pieno a scuola non c'è, perché hanno risparmiato i costi del servizio e hanno ricevuto un rimborso sostanzioso (il 70%) per le mancate entrate. Com'è noto, il tempo pieno e i servizi scolastici in generale hanno una distribuzione molto diseguale sul territorio per cui questo doppio bonus sui servizi individuali sfiora appena il Mezzogiorno. Si dà il caso che i 3 miliardi complessivi del fondo non sono sufficienti a coprire tutte le mancate entrate dei Comuni per cui una volta pagato il bonus per i servizi scolastici (finito quasi tutto al Nord) sono rimasti meno fondi per rimborsare davvero le minori entrate comunali e, soprattutto, per garantire l'erogazione dei servizi essenziali (sociali, di trasporto, di manutenzione, sicurezza) che al Sud sono notoriamente deficitari. E così tra le grandi città spiccano i 210 euro per abitante di Venezia, 187 di Milano, 134 di Firenze, 116 di Brescia. Roma invece si ferma a 65 euro per residente. E nel Mezzogiorno la differenza con i comuni del Nord è abissale: 56 euro a testa a Salerno, 45 euro a Bari, 42 a Napoli, 29 a Catania, 28 a Palermo, 21 a Messina. Per i servizi essenziali un messinese riceve un decimo di un veneziano.
 


Va chiarito un punto: il fondo deve coprire le minori entrate comunali (tendendo conto delle minori uscite) per cui è chiaro che i comuni con forti entrate fiscali hanno ricevuto i cali più consistenti. E quindi è ovvio che il fondo avrebbe dovuto ristorare soprattutto le aree più agiate. Ma con il trucco dei servizi individuali si è modificato lo spirito del contributo pubblico, trasformandolo in un premio per chi storicamente forniva più servizi ai cittadini. Il valore di questo premio, tecnicamente e moralmente ingiustificato, è di 300 milioni.

Non è il solo caso di utilizzo orientato dei parametri di fronte alla sfida Covid. Questo giornale ha già segnalato come il contributo per i commercianti dei centri storici introdotto nel decreto di Ferragosto sarà limitato ai capoluoghi di provincia con presenza di turisti stranieri superiore al 3% della popolazione (e ciò taglia fuori tutti i capoluoghi dell'Italia meridionale eccetto Matera) o ai comuni capoluogo di città metropolitane con presenza di turisti stranieri annuali pari almeno ai residenti (e ciò taglia fuori tra le 14 città metropolitane Reggio Calabria e Messina).

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Non sempre però le formule restano invariate. Un Sud più presente e battagliero, infatti, riesce a portare a casa risultati all'insegna dell'equità territoriale. Si è detto degli asili nido. Dal 2021 potrebbero cambiare anche le cosiddette variabili dummy per i servizi sociali comunali, cioè delle variabili dei comodo (dummy vuol dire fantoccio) utilizzate per togliere diritti sociali ai residenti in alcune regioni e in particolare in Campania, Calabria, Molise. Sono formule che, attualmente, portano risultati paradossali come quello che vede Salerno appaiata a Ferrara per abitanti e per servizi sociali offerti, ma con Salerno costretta a tagliare l'assistenza sociale con questa incredibile motivazione: è in Campania.

Ma la madre di tutte le formule è quella che porta al riparto del fondo sanitario nazionale.
Dal 2011 in meccanismo prevede una suddivisione tra le regioni in base alla popolazione pesata per età, cioè dando più peso alle persone anziane. Dove la speranza di vita è minore, come in Campania, sono di meno anche gli anziani con il risultato davvero irrazionale che ci sono meno soldi per curarsi dove ci si ammala e si muore prima. Qui le ragioni della Campania sono note, ma la torta è talmente grande (113 miliardi di euro) e quindi gli interessi in gioco sono così grandi che la resistenza di chi è beneficiato dall'attuale meccanismo è fortissima. Non va dimenticato che una sanità meridionale inadeguata porta un flusso netto in termini di risorse verso Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Toscana. E anche quello è un doppio bonus.

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