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Franchi tiratori, l'incubo in parlamento già prima del ddl Zan e in vista delle elezioni al Quirinale

di Gigi Di Fiore
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 29 Ottobre 2021, 16:44 - Ultimo agg. : 20:03
4 Minuti di Lettura

Sono l’incubo parlamentare delle maggioranze politiche e dei candidati al Quirinale. La cattiva coscienza di instabili accordi politici che, nel segreto dell’urna, fa diventare protagonisti loro, i «franchi tiratori». Un nome mutuato dalla storia, legato al corpo di fucilieri francesi che agivano di nascosto tra la fine del ‘700 e la metà dell’800 contro i prussiani nella regione dei Vosgi. La definizione entrò nel gergo politico dalla metà del secolo scorso per diventare, come scrisse il giornalista parlamentare Gino Pallotta, «l’immagine del cecchino che, nascosto, tira all’improvviso». Tante le vittime, nella nostra storia repubblicana.

Sono stati soprattutto i candidati alla presidenza della Repubblica a fare le spese dei «cecchini parlamentari». Si cominciò molto presto, con Carlo Sforza il 10 maggio del 1948. Era il candidato Dc sostenuto da Alcide De Gasperi. Non ce la fece per 98 voti al quarto scrutinio. «Come non detto, senza rancore» commentò Sforza, che aveva già scritto il discorso di insediamento. Sette anni dopo, fu impallinato anche Cesare Merzagora, stavolta appoggiato da Amintore Fanfani. Venne messo sull’avviso da Giulio Andreotti che la sua candidatura non era ben vista da tutti. Alle votazioni del 28 aprile 1955 mancarono 160 voti di democristiani, che a Merzagora preferirono Giovanni Gronchi. «Mi sono fatto giocare come un bambino a moscacieca» commentò un deluso Merzagora.
Ci cascò anche Amintore Fanfani nel 1971, quando gli fu preferito Giovanni Leone. Lo aveva avvisato sempre Giulio Andreotti: «Ho confessato i nostri che sono compatti, ma socialisti e comunisti non ti vogliono e me l’hanno detto». Così fu. Sette anni dopo, altra vittima fu Ugo La Malfa. Lo appoggiavano comunisti e democristiani, ma Bettino Craxi mise il veto vendicandosi del mancato appoggio lamalfiano a Pietro Nenni sette anni prima. La spuntò Sandro Pertini. 

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Nel film «Il divo» di Paolo Sorrentino, si rievoca anche la fredda delusione di Giulio Andreotti per la mancata elezione al Quirinale nel 1992. L’altro candidato Dc era Arnaldo Forlani. Entrambi dissero a Paolo Pomicino: «Se il candidato è lui, la mia candidatura non c’è». L’ammissione di azzerarsi a vicenda, ce la fece alla fine Oscar Luigi Scalfaro. Nel 2013, invece, il grande sconfitto fu il segretario Pd, Pier Luigi Bersani, che candidò al Quirinale Franco Marini. Giovedì 18 aprile, Marini fu fatto fuori dai parlamentari Pd, pattuglia consistente tra i 200 franchi tiratori. Il giorno dopo, stessa sorte toccò a Romano Prodi, cui mancarono 101 voti. Per non parlare, stavolta nella nomina alla Corte costituzionale in quota Parlamento, dei tentativi falliti di Luciano Violante e Antonio Catricalà già presidente dell’Antitrust. Dopo più tentativi, nessuno di loro riuscì a raggiungere il quorum necessario. Violante si fece da parte.

Irriverenti molte frasi depositate nel segreto dell’urna. La fantasia dei franchi tiratori è stata sempre fertile. «Nano maledetto non sarai mai eletto» scrisse l’ignoto parlamentare nel 1971 contro Amintore Fanfani. Quando invece nel 1999 ce la fece Carlo Azeglio Ciampi, i 185 cecchini furono neutralizzati. Ma sulle loro schede lasciarono frasi e nomi da manuali d’ironia parlamentare. Voti arrivarono a Maradona, il cardinale Poletti, «Maria Calise di Ischia», «la mia mamma», «l’asino Di Pietro». Ne uscì anche un antistorico «viva il re!».

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Certo nella lotta politica l’urna segreta è stata sempre arma efficace, tanto che Aldo Moro all’Assemblea costituente propose di abolirla. Eppure, fu proprio lui a utilizzare i cecchini nel 1964 contro Giovanni Leone. E invitò Carlo Donat Cattin a organizzare l’imboscata, spiegando ironico: «I mezzi tecnici sono solo tre, il pugnale, il veleno e i franchi tiratori». Ma proprio Donat Cattin, cinque anni prima, al congresso democristiano a Firenze aveva accusato i suoi compagni di partito Carmine De Martino e Erminio Pennacchini di essere due franchi tiratori seriali contro il governo Fanfani. Ne seguirono querele e accuse incrociate di «tradimento».

Anche Bettino Craxi fu vittima di sgambetti contro il suo governo. Il 26 giugno 1986 fu costretto a dimettersi. Da vittima a beneficiario, quando invece nel 1993 per quattro votazioni su sei vennero respinte le richieste di autorizzazione a procedere presentate nei suoi confronti dalla Procura di Milano. Fu il segreto dell’urna, quella volta, ad aiutare Craxi. Nemesi della storia se, sette anni prima, Claudio Signorile vice segretario Psi aveva tuonato contro il voto segreto: «Poniamo il problema della governabilità di questa maggioranza prima che si arrivi a uno sfascio. I franchi tiratori sono troppi e il clima si avvelena». Ne seguì un comunicato dell’esecutivo socialista: «Il Parlamento è esposto alle continue incursioni dei franchi tiratori, strumento di manovre politiche e manovre inconfessabili». Ruoli e dichiarazioni intercambiabili nella nostra storia repubblicana, ma il protagonista vincente nello sparigliare le carte della politica parlamentare è sempre lui: il signor franco tiratore, personaggio dai mille volti. Tutti mascherati.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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