Stefania Brancaccio, napoletana, una delle imprenditrici più in prima linea nel sostegno dei diritti delle donne, non vuole parlare di modello. Ma non sono sicuramente tanti i datori di lavoro che come lei concedono part time, permessi per l'uscita anticipata e altri benefit contrattuali alle dipendenti senza trattenerne l'importo sulla busta paga. Il salario resta invariato, del tutto pari a quello dei lavoratori maschi. «È sempre stato così e anche ora che di donne alla Coelmo siamo rimaste in poche la linea non cambia», dice. E spiega: «Le donne che lavorano sono penalizzate da una serie di problemi in parte noti, come dover conciliare il ruolo di lavoratrice e madre, in parte forse sottovalutati: pensi al costo dei trasporti per chi viene da fuori o degli asili nido, dove ci sono, per sistemare i figli. La parità salariale a ogni costo per me è un riconoscimento di queste difficoltà che nessuna legge è riuscita ancora a valutare».
Un esempio, un'eccezione alla regola. Perché nella stragrande maggioranza dei casi le donne che lavorano, nel pubblico e nel privato, sono pagate meno dei loro colleghi uomini. E non basta che siano mediamente più preparate, che rappresentino il 55% del totale dei laureati italiani e dimostrino in media maggiore affidabilità anche quando accettano mansioni inferiori al loro titolo di studio. Quando arriva il momento di fare i conti, sono loro in un modo o nell'altro a rimetterci, specie se uno straccio di lavoro lo hanno rimediato in imprese di dimensioni micro o piccole. «È vero conferma Doriana Bonavita, segretaria regionale della Cisl Campania -: ho lavorato 27 anni come dipendente pubblica (ministero dell'Interno, ndr) prima di avere il distacco per la mia attività sindacale. E posso dire che le discriminazioni esistono. Le donne laureate senza figli, ad esempio, sono occupate all'80% e fanno anche carriera. Chi ha figli finisce invece prima o poi per dover fare delle scelte, soprattutto al Sud. E, mi creda, non è una questione di misure di sostegno insufficienti per le donne lavoratrici: la Regione Campania ha stanziato 26 milioni perché le imprese non penalizzino nelle assunzioni le donne madri ma il gap resta». E investe, come detto, pubblico e privato praticamente alla stessa maniera. Ancora la sindacalista: «Sono stata delegata aziendale e non esito a dire che le disuguaglianze diventano quasi un valore aggiunto, in senso ovviamente negativo per le donne. Inserire in un team una donna dipende troppo spesso dalla sua disponibilità ad accettare il prolungamento dell'orario di lavoro. Il che comporta ovviamente una diversa organizzazione familiare. È vero che molte cose sono cambiate in questi anni ma quando sai che la scuola di tuo figlio non è a tempo pieno e che i servizi pubblici non funzionano come accade al Sud, allora competenze e professionalità diventano secondarie. E ti fai o sei messa da parte».
Pagate meno pur di non rinunciare al posto di lavoro. Magari con buste paga dagli importi fittizi. E al nero se la busta paga non c'è: prendere o lasciare. Se va bene, sei costretta spesso ad accettare che chi ne sa meno di te farà più carriera pur avendo gli stessi titoli di studio. È la dimostrazione che la questione femminile è strettamente connessa con la questione meridionale. Ne parla diffusamente lo studio pubblicato da Luca Bianchi, Raimondo Bosco e Gabriella Pappadà sulla Rivista economica del Mezzogiorno edita dalla Svimez. Il tasso di attività e quello di occupazione femminile collocano le regioni meridionali in fondo alla classifica europea. «C'è una persistente carenza di domanda di lavoro anche in presenza di un'offerta di lavoro femminile crescente, specie per le donne con più elevato livelli di istruzione». Perché? «Incapacità delle politiche italiane di welfare, incertezza economica che modifica i comportamenti sociali tra cui la diminuzione del tasso di fertilità delle italiane», provano a rispondere i ricercatori. E i numeri legittimano quest'analisi: negli anni dell'ultima recessione, le giovani donne del Sud hanno perso oltre 194mila posti di lavoro recuperandone appena 6mila quando si è iniziata a intravedere la luce in fondo al tunnel, oggi per altro di nuovo oscurata. Chi resiste lo fa stringendo spesso la cinghia. Una donna laureata da quattro anni che lavora al Sud ha un reddito medio mensile netto di 300 euro inferiore a quello di un uomo, 1000 euro contro 1300. E quelle che un lavoro ce l'hanno, in un caso su tre lo hanno trovato al Nord: già, perché anche sul versante della mobilità la componente femminile meridionale è di gran lunga superiore a quella maschile.
«C'è una sfida culturale da cogliere - osserva Anna Del Sorbo, imprenditrice napoletana della carpenteria metallica, presidente della Piccola industria di Confindustria Napoli -: da noi non è mai stato discriminato il personale femminile in termini di salario, la parità contrattuale è una certezza assoluta anche se parliamo di donne impegnate nella governance dell'azienda visto che per il tipo di lavoro richiesto in fabbrica, piuttosto usurante, la manodopera è solo maschile. Se una delle mie collaboratrici ha bisogno di un permesso, perché deve portare il figlio dal pediatra, lo ottiene senza alcuna trattenuta oraria sulla busta paga». Ma allora lavorare in un'impresa al femminile fa la differenza? «No, anche se dice Del Sorbo le donne sono generalmente più stakanoviste degli uomini, stanno più sul pezzo. Noi però quando leggiamo i curricula o facciamo i colloqui di selezione non ci basiamo sulla differenza di genere: conta soprattutto l'approccio, come ti presenti, come dimostri di voler far parte di un gruppo industriale oltre ovviamente alle tue competenze. La differenza la fa la personalità».
Discriminate o no, sono anche forzatamente silenziose nella maggior parte dei casi le donne meridionali. Nel senso che restano mediamente poche le cause avviate da quante sul piano salariale ritengono di essere state discriminate. Dice l'avvocato giuslavorista Francesco Masi: «Il dato è questo ma non è una questione di genere. Il problema è trasversale, non ci sono peculiarità statistiche, almeno alla luce della mia esperienza. E' vero piuttosto che esistono elementi di particolare debolezza che rendono ancora più complicato il ricorso ad un patrocinio legale: da noi al Sud non c'è mobilità occupazionale sul territorio, lo scenario non prevede possibili alternative specie se chi è discriminato appartiene a piccole e mede imprese. Di fronte ai tempi lunghi della giustizia e alle oggettive difficoltà di affrontare un giudizio la maggior parte delle persone rinuncia ad andare avanti. Ne ho visti parecchi di casi del genere. C'entra anche la mentalità maschilista di certi imprenditori che rinunciano alle donne temendo di doversene privare per periodi lunghi una volta rimaste incinte e poi diventate madri? «Una mentalità di questo tipo non è del tutto scomparsa ammette Masi ma anche qui conta molto la dimensione dell'impresa: quelle più strutturate non hanno ormai dubbi del genere, le più piccole sì». Forse per questo Stefania Brancaccio, un po' provocatoriamente, dice che «alla fine, quando lo Stato non guarda alla famiglia e dimentica le esigenze di una lavoratrice madre, le donne sono costrette alle gravidanze difficili, accettano di restare a casa anche tre anni e rinunciano a fare carriera. Altro che parità certificata e tempi di conciliazione tra lavoro e famiglia: la verità è ben diversa».
Donne e salari, la parità è un miraggio: la busta paga vale il 30% in meno
di Nando Santonastaso
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Lunedì 11 Febbraio 2019, 07:00 - Ultimo agg. :
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