Draghi, cento giorni di governo dallo stop ad Arcuri alla campagna sui brevetti

Draghi, cento giorni di governo dallo stop ad Arcuri alla campagna sui brevetti
di Massimo Adinolfi
Domenica 23 Maggio 2021, 08:30 - Ultimo agg. 24 Maggio, 08:34
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Che i primi cento giorni del governo Draghi cadano mentre a Roma si riunisce il Global Health Summit è solo una coincidenza, ovviamente. Ma il caso vuole che il primo tagliando il premier lo faccia proprio mentre calca il palcoscenico che meglio restituisce la sua caratura internazionale: tra i grandi della Terra, che provano a trovare un'intesa sui vaccini. Il governo italiano sostiene la proposta Biden di una sospensione dei brevetti, Macron dichiara di appoggiarla e anche la Merkel non si mette di traverso, purché, aggiunge, la cessione dei brevetti avvenga su base volontaria. 

Insomma, le cose si muovono e il Presidente Draghi occupa con disinvoltura il centro della scena. Anche perché la Merkel è prossima al ritiro dalla politica, mentre Macron è atteso da un anno elettorale. E Draghi, che all'esperienza e all'autorevolezza unisce gli ottimi rapporti con Joe Biden e con la Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, può far sentire forte e chiara la sua voce. 

È già capitato due volte, in circostanze assai diverse. La prima, quando, a inizio marzo, di fronte ai ritardi nella fornitura delle dosi, il governo aveva deciso di bloccare l'esportazione del vaccino Astrazeneca dagli stabilimenti italiani della multinazionale. Un'eventualità prevista dai regolamenti dell'Unione Europea, ma a cui fino a quel momento nessuno aveva pensato. Ci ha pensato invece Draghi, dando un segnale forte della determinazione da usare nei rapporti con le aziende farmaceutiche. La seconda volta quando, in conferenza stampa, richiesto di un commento sul caso della sedia mancante per la Presidente Von der Leyen, in visita ad Ankara, aveva risposto con parole assai poco diplomatiche, definendo il premier turco un dittatore. Erano seguite proteste formali, la convocazione dell'ambasciatore italiano e, giorni dopo, una replica assai aspra di Recep Erdoan. Voce dal sen fuggita o presa di posizione studiata a tavolino? In un caso o nell'altro, le importanti relazioni economiche tra i due paesi non pare che ne abbiano risentito negativamente, mentre si è fatta sentire la volontà dell'Italia di avere un ruolo maggiore nello scenario libico, provando a ridimensionare il peso della Turchia, magari grazie all'appoggio degli Usa.

Non a caso, è in Libia che Draghi ha compiuto il primo viaggio all'estero da premier. 

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Se però lasciamo la politica internazionale e volgiamo lo sguardo alle faccende domestiche, il quadro cambia un poco. Il governo Draghi nasce con due obiettivi fondamentali: imprimere un'accelerazione sensibile al piano vaccinale, per raggiungere l'immunità di gregge entro la fine dell'estate, e presentare il piano nazionale di ripresa e resilienza, su cui spendere i fondi stanziati dall'Unione. Il primo obiettivo è alla portata: Draghi ha rimosso il commissario Arcuri, dando un primo, grande dispiacere al suo predecessore Conte (il secondo glielo ha dato sostituendo ai servizi il prefetto Vecchione, fedelissimo dell'ex premier, con Elisabetta Belloni, molto stimata alla Farnesina). Al posto di Arcuri è arrivato il generale Figliuolo, e alla luce dei risultati di queste settimane, con circa trenta milioni di italiani vaccinati, non si può dire che abbia fatto male. Pazienza se, invece delle simpatiche primule di Arcuri abbiamo i monotoni hub di Figliuolo: funzionano, ed è quel che serve. 

Il secondo obiettivo è stato raggiunto a fine aprile, con la presentazione di un Pnrr più sostanzioso di quello approntato dal precedente governo. In realtà, si tratta solo del primo tempo di una strategia di investimenti e riforme che impegnerà il prossimo quinquennio, e su cui la partita è ancora tutta da giocare. Soprattutto perché per l'attuazione del piano devono tornare in campo i partiti. I quali partiti sostengono sì l'esecutivo Draghi (salvo la Meloni), ma non marciano certo uniti e compatti. Lo si è percepito, nelle settimane scorse, anzitutto sulla questione del coprifuoco e delle riaperture, con la Lega a spingere, il ministro Speranza a frenare e il Pd a mediare. Ma soprattutto lo si è toccato con mano in questi ultimi giorni, con le proposte in materia fiscale che guardano in direzioni opposte: la Lega vuole la flat tax sui redditi, o qualcosa del genere, per alleggerire e semplificare l'imposizione fiscale; il Pd vuole una tassa di successione per eredità o donazioni superiori a 5 milioni di euro, per conferire una dote di diecimila euro ai diciottenni. Agli uni e agli altri Draghi ha detto no: a Salvini ha ricordato che la progressività delle aliquote va preservata e a Letta ha obiettato che questo è il momento di dare, non di prendere. Resta il fatto che in questa materia, come in materia di riforma della pubblica amministrazione, o di riforma della giustizia o di migranti (che minaccia di essere il tema caldo dei prossimi mesi) siamo ben lontani dalla comunione di intenti. Finora si è andati avanti con i vari decreti a sostegno delle attività produttive, e col blocco dei licenziamenti. Quando cambierà la musica, si vedrà la reale forza di Draghi. E si capirà anche se manterrà il gusto di affrontare le sfide, o penserà di ritirarsi nobilmente su un più alto Colle. 

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