CHE COSA ABBIAMO A CHE FARE, NOI CON QUESTA EUROPA?

CHE COSA ABBIAMO A CHE FARE, NOI CON QUESTA EUROPA?
di Alessandro Barbano
Domenica 16 Febbraio 2014, 18:36 - Ultimo agg. 17 Febbraio, 09:39
4 Minuti di Lettura
Si fa presto a dire: ribaltiamo il ricatto della finanza, che ci impone un rigore asfissiante. Superiamo l’egemonia tedesca, che nega la solidariet e aumenta le diseguaglianze tra paesi poveri e ricchi. Riportiamo al centro la politica e la societ.



Si fa presto a dire: cambiamo l’Europa. Ma di quale politica, di quale società e di quale Europa parliamo? Che cosa abbiamo da spartire con l’Europa che a Bruxelles vota a maggioranza l’eutanasia dei bambini? O che a Copenaghen sventra una giraffa per evitare accoppiamenti tra consanguinei e ne fa l’autopsia davanti a una platea di scolari, prima di offrirne i resti in pasto ai leoni?



Che abbiamo a che fare noi con questa idolatria del presente, che parla con le parole del direttore dello zoo?: «La cosa più importante, per noi, è che gli animali stiano bene quando sono in vita, indipendentemente da quanto questa duri». Che emozioni, sentimenti, valori civili possiamo condividere con chi nega, non i dogmi della fede, ma il senso dell’umanesimo, i simboli con i quali la nostra civiltà ama, parla e sogna? Simboli umiliati da un materialismo senza ossigeno, che crede di giustificare così il macello: «Se avessimo sgozzato un maiale, anziché una giraffa, nessuno avrebbe battuto ciglio».



O che invoca la compassione per il dolore altrui, quando legittima la «soppressione» di un bambino in forza di un suo presunto consenso, rassicurandoci che, certo, uno psicologo accerterà la sua capacità di intendere nel chiedere l’eutanasia. Ma come, non valgono più quei basilari principi giuridici e umani che áncorano ovunque la capacità di agire alla coscienza? Per i quali è vietato a un minore di acquistare una casa o perfino un’auto, ma ora gli è concesso di disporre di un bene primario come la vita?



Siamo ancora certi di sognare una patria comune con gruppi sociali e maggioranze politiche che la pensano così? Che coltivano, dietro un paravento umanitario, un’ideologia disumana? Sfatiamo un luogo comune: se l’Europa dei poteri tecnocratici ci è ostile, crediamo di poter contare sulla solidarietà di quella delle genti? Oppure nello spazio simbolico di una bandiera sbiadita i cittadini che la impugnano hanno preso da tempo a coltivare passioni e idee confliggenti?



Si dirà che l’Europa è da sempre un metodo. Un patto tra diversi, che si riconoscono e accettano di confrontarsi proprio nella loro diversità. Ed è ciò che c’induce a porre queste riflessioni nella forma dubitativa di un’interrogativo. Si dirà ancora, come fa Adriano Sofri su la Repubblica, che di fronte a questioni che riguardano la vita e la morte non vale affidarsi «alle spalle coperte dei principi assoluti». Possiamo convenire, a patto che un certo pragmatismo non diventi una tecnoterapia per abolire il male dal mondo con un atto di volizione, arrivando a ipotizzare che un bambino di nove o dieci anni, che non ha ancora neanche un’idea vaga di ciò che è morte, possa di fronte al dolore della malattia desiderare e richiedere autonomamente l’eutanasia.



Certo, non pensiamo che la laicità possa proteggersi dall’idea del dolore con la poesia di Leopardi. Ma neanche con un’anestesia civile fatta di leggi e prassi dietro le quali la tecnica insegue l’aberrazione di un progressismo stupido, per cui ciò che è possibile è, per lo stesso motivo, lecito e giusto. Di una cosa siamo certi: tutto ciò ha a che fare con l’Europa e rimette su un piano diverso il dibattito sulla sua incompiutezza, almeno per chi voglia discuterne senza pregiudizi. Se la prospettiva federale non avanza, anzi arretra nel nazionalismo a ogni latitudine, non è solo colpa del patto di stabilità, ma di una rinuncia politica a promuovere una sintesi civile tra le diverse culture che abitano il Vecchio Continente.



Con troppa superficialità la laicità ha derubricato come confessionale la rivendicazione di un preambolo, da inserire nella Costituzione europea, sulle radici cristiane, avanzata qualche anno fa dalla Chiesa. Delegittimando ed escludendo il magistero religioso dalla sfera civile, ha scartato quelle che un grande filosofo contemporaneo ateo, come Jurgen Habermas, definisce «imprescindibili risorse di senso di una società». Perché stupirsi allora se non si distingue più un maiale da una giraffa e una giraffa da un uomo?



La malattia incurabile dell’Europa è il presentismo, una velleitaria sfida della tecnica al tempo, è l’incapacità di comprendere il dolore della condizione umana e la sua riduzione alla dimensione corporea, è la rinuncia ai principi in un nome di un pragmatismo maldestro che confonde la qualità con la quantità, e a cui non pare estranea, in questa stagione, una Chiesa che somiglia troppo a una centrale di comunicazione.



In questo buio la confusione di una laicità smarrita si produce in gaffe che sarebbero perfino comiche se non avessero in sé un contenuto di tragicità. Come quella, sostenuta dai promotori della legge belga, per cui i piccoli malati terminali svilupperebbero una maturità affettiva tale da consentire loro di decidere sulla morte in piena coscienza. O, ancora, quella per cui in Olanda, dove l’eutanasia è ammessa dai dodici anni in su, solo in cinque ne avrebbero usufruito. Appunto, in cinque, anzi in 5. Non Dennis, Linda, Jeroen, Martjin, Esther. Ma 1+1+1+1+1= 5. Che abbiamo a che fare noi con questa Europa?
© RIPRODUZIONE RISERVATA