RIFORME, IL PREMIER RENZI NON SBAGLI DOVE BERLUSCONI HA FALLITO

RIFORME, IL PREMIER RENZI NON SBAGLI DOVE BERLUSCONI HA FALLITO
di Alessandro Barbano
Domenica 16 Marzo 2014, 18:31 - Ultimo agg. 17 Marzo, 08:39
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Non sono in pochi a riconoscere a Renzi, chi per lode e chi per dispregio, somiglianze con Berlusconi. Ci indubitabile per l’abilit nel comunicare, ma anche per il fiuto e la leadership.



Ma per evitare che il suo progetto somigli all’anatra zoppa del Cavaliere, Renzi non deve ripetere gli errori che il primo ha commesso. Berlusconi ha parzialmente fallito perché non ha costruito quella prospettiva liberale che, con poche brevi eccezioni, è estranea alla storia politica italiana. Renzi, se non vuole passare come una meteora, deve rifondare la sinistra, riscriverne i valori e adeguarli ai cambiamenti che si sono prodotti nella società. Non deve cadere nell’errore di considerare il buon governo esaustivo di una politica di lunga durata. E soprattutto non deve pensare che per cambiare un Paese difficile basti una prassi amministrativa efficiente, se pur inedita, come quella che ha disegnato con mirabile chiarezza in televisione.

Renzi deve comprendere che rifondare la sinistra e cambiare l’Italia sono le due tappe di uno stesso impegno, e soprattutto deve dimostrare che è possibile percorrerle insieme, contrariamente a quanto hanno fatto grandi leader, come Blair, che le hanno coperte in tempi diversi. Ciò significa assumere un’idea di Paese che coincide con una visione che in un certo senso diremmo ideologica, cioè riferibile ai valori di ciò che vuol dire oggi sinistra.



Questioni come il lavoro e il welfare ne sono la prova. Prendiamo il primo, che è oggetto dei provvedimenti annunciati dal governo. Cambiare il Paese attraverso il lavoro significa agganciare l’occupazione alla produttività e, quindi, alla crescita. Rifondare la sinistra attraverso il lavoro significa decidere chi sono i soggetti più deboli da tutelare. Le due partite si giocano su un teatro che ha coordinate sociali del tutto inedite: mai come in questo momento una maggiore competitività corrisponde a una maggiore giustizia sociale. Il perché è di tutta evidenza. Il Paese è teatro di un furto generazionale, compiuto dai padri a danno dei figli, che si fa fatica a risarcire. A 15 milioni di garantiti corrispondono oltre 7 milioni di precari e quattro milioni di disoccupati, in gran parte giovani o quasi giovani, a molti dei quali è negato un presente di benessere e stabilità e meno che mai è concesso di progettare un futuro dignitoso. Una sinistra che ha nella giustizia sociale la sua bussola può e deve senza indugi indirizzarne l’ago verso la competitività: ciò significa superare l’assurdo dualismo del mercato del lavoro. Cioè rinunciare a una flessibilità audace a danno di pochi, in ragione di una stabilità flessibile a vantaggio di tutti.





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