Il Pd si compatta: «Mai con M5S», ma resta il nodo leadership

Il Pd si compatta: «Mai con M5S», ma resta il nodo leadership
di Alberto Gentili
Giovedì 8 Marzo 2018, 10:11
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«Ho perso, mi sono dimesso, dimenticatevi di me e soprattutto non rompetemi più le scatole». Matteo Renzi, prima di tuffarsi in un pranzo a palazzo Vecchio con il sindaco Dario Nardella, ha condensato così il proprio pensiero. Insomma, invece di continuare a resistere all'assedio, il segretario si chiama fuori. Tant'è, come hanno chiesto Paolo Gentiloni e Dario Franceschini, Marco Minniti e Graziano Delrio, Andrea Orlando e Matteo Richetti, che lunedì in Direzione il vicesegretario Maurizio Martina ne ratificherà le dimissioni. E, insieme al presidente Matteo Orfini, guiderà la transizione fino all'assemblea nazionale del 15 aprile.

Con chi ci ha parlato, Renzi ha escluso di puntare a fondare un proprio partito, facendo sapere di essere intenzionato a fondare una nuova «associazione». E negando di voler seguire le orme del presidente francese Macron che mollò il Psf e fondò «En Marche» per scalare l'Eliseo. Ma tra i suoi più stretti collaboratori non si esclude lo strappo: «Per ora l'ipotesi galleggia nell'aria. Dopo, chissà. Dipende se si precipiterà verso nuove elezioni, in quel caso non sarebbe possibile. Ma se Cinquestelle o la Lega formeranno un governo, di tempo ce ne sarà...».
 
Di certo, c'è che Renzi ha firmato davvero la lettera di dimissioni e che anche Maria Elena Boschi si chiama fuori da tutto: «Non sono in pista né per capogruppo, né per la vicepresidenza della Camera. Per favore non tirate in ballo il mio nome». Ed è altrettanto certo che tutti, con l'esclusione di Michele Emiliano e Sergio Chiamparino, bocciano senza appello l'ipotesi di sostenere un governo con i Cinquestelle. L'ha messo nero su bianco il leader della minoranza, Andrea Orlando: «Il 90 per cento del partito è contrario». L'ha scandito il neo iscritto Carlo Calenda: «Se dovesse accadere il contrario il mio tesseramento sarebbe il più breve della storia». L'hanno dichiarato i capogruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda e i ministri Dario Franceschini, Anna Finocchiaro, Claudio De Vincenti, Graziano Delrio, la prodiana Sandra Zampa, i senatori Francesco Verducci e Dario Parrini. Il leit motiv: «Gli italiani hanno scelto che dobbiamo stare all'opposizione e ci staremo. I Cinquestelle hanno vinto, dimostrino di saper governare il Paese».

Una posizione per ora granitica. Ma come confidano in un Nazareno ormai quasi derenzizzato, «bisogna vedere cosa accadrà tra un paio di mesi se Lega o Cinquestelle non saranno riusciti a formare un governo. In quel caso, se Mattarella dirà che c'è un rischio-Paese e ci chiederà di sostenere un esecutivo di centrodestra con un premier diverso da Salvini, bisognerà aprire una riflessione». Segue postilla: «Per fortuna è più facile che Di Maio e Salvini si mettano d'accordo per tornare alle urne».

Prospettive di governo a parte, è un azzardo parlare di partito pacificato. Come da statuto Martina, nel ruolo di vicegretario eletto con le primarie, farà il reggente. Ma Renzi e i suoi spingono affinché il presidente Matteo Orfini abbia un «forte peso» nella gestione della transizione.

Di suo, Martina, ha già cominciato le consultazioni per garantire «collegialità» ed evitare conte laceranti alla Direzione di lunedì. E ieri al Nazareno ha incontrato Zanda, Calenda, Franceschini, Delrio. Ci sono da decidere i capigruppo (Guerini alla Camera e Marcucci al Senato i nomi più accreditati, ma in corsa è anche Richetti). E c'è da stabilire cosa fare all'assemblea nazionale prevista del 15 aprile. È lì che si sposterà la battaglia.

All'orizzonte ci sono due ipotesi. La prima, è quella di convocare il congresso (primarie incluse) per l'autunno. In quel caso decadrebbe Martina e la reggenza verrebbe affidata a Orfini: un epilogo gradito a Renzi. Ma se le elezioni fossero alle porte (tra l'altro tra aprile e giugno si vota in Friuli, Molise e in circa 300 Comuni) avanzerebbe la seconda ipotesi: eleggere in Assemblea il nuovo segretario (magari a tempo, con il compito di portare il partito a congresso all'inizio del 2019). I nomi sono quelli noti: Nicola Zingaretti, Delrio. Più difficilmente Gentiloni, anche se Calenda (anche lui potenzialmente in corsa) lo incorona come leader: «Un leader già c'è, è Paolo». Questo perché Gentiloni, a metà aprile, sarà probabilmente ancora premier e investirlo del ruolo di segretario toglierebbe al Quirinale la possibilità di lasciarlo a palazzo Chigi fino all'eventuale voto ravvicinato. Anche per questo Matteo Ricci, responsabile enti locali, predica prudenza: «Precipitare ora in una discussione sulla leadership è insensato. Dobbiamo rimettere insieme i cocci e posizionarci all'opposizione. Tutto il resto verrà dopo».
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