Governo, Di Maio a caccia di alleati ma Renzi stoppa la minoranza del Pd

Governo, Di Maio a caccia di alleati ma Renzi stoppa la minoranza del Pd
di Massimo Adinolfi
Martedì 6 Marzo 2018, 06:36 - Ultimo agg. 13:06
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«Siamo aperti al confronto con tutte le forze politiche, a partire dall'individuazione delle figure di garanzia per le due Presidenze delle Camere»: nella sua prima dichiarazione dopo il voto, Luigi Di Maio ha indicato l'appuntamento ad esito del quale si diraderà forse la nebbia sul futuro governo (e sul futuro della legislatura).
I Cinque Stelle hanno vinto, dilagando in tutto il Paese e sfondando nel Mezzogiorno il muro del 40%. Hanno ottenuto un risultato storico, e l'insistenza di Di Maio sui trent'anni trascorsi invano, cioè sull'intero arco temporale della seconda Repubblica, indica il significato che i Cinque Stelle assegnano il voto: anno zero, nuovo inizio, terza Repubblica. L'enfasi di queste parole ha però anche un altro valore: esprimendosi nel modo più rispettoso possibile nei confronti del presidente Mattarella, che dovrà prendere una difficilissima decisione, il capo politico del primo partito del Paese fa intendere che si aspetta l'incarico per la formazione del governo.

Se è finita la seconda Repubblica, è finita l'alternanza fra centrosinistra e centrodestra come l'abbiamo conosciuta finora. Ed è vero: quelle coalizioni non ci sono più. Ma i giochi non sono ancora fatti: i Cinque Stelle non hanno la maggioranza assoluta e devono cercare consensi in Parlamento.
Per questo Di Maio sistema l'esca e lancia l'amo: per la scelta dei futuri Presidenti dei due rami del Parlamento sono disponibili a ragionare con le altre forze politiche. Leggasi: vi diamo le Presidenze, o almeno una delle due, se voi in cambio ci date il via libera per Palazzo Chigi. L'invito è chiaramente rivolto anzitutto a quelli che sono arrivati per ultimi, al Pd e alla sparuta pattuglia di Liberi e Uguali: l'unica possibilità che hanno di rientrare nel gioco è infatti fare un qualche accordo con i grillini. D'altra parte, la sconfitta è stata così netta, il risultato così al di sotto della più infausta delle previsioni, che non è impossibile che prosegua ancora il processo di disgregazione del centrosinistra.
 


Qualche segnale, del resto, c'è già. Nel tardo pomeriggio di ieri ha preso la parola Matteo Renzi per annunciare le dimissioni. Ma la modalità è studiata in modo da non lasciare subito il campo. Il percorso congressuale che dovrà portare alla formazione della nuova segreteria democrat non partirà subito, ma solo dopo che il Parlamento si sarà insediato e che il governo avrà giurato nelle mani del Presidente della Repubblica. Leggasi: alle consultazioni col Quirinale ci vado io. E mantengo il punto. Per Renzi, i rapporti di forza mutati non devono infatti mutare la linea politica: «Da Di Maio e Salvini ci dividono tre elementi chiavi: il loro anti-europeismo, la loro anti-politica e l'odio verbale che hanno avuto contro i militanti democratici». Vale a dire: non verrà dal Pd, almeno fin tanto che il segretario sarà Renzi, il sostegno a un governo di centrodestra o a un governo pentastellato. In verità, è la logica conseguenza di un giudizio che gli elettori hanno dato senza sfumature, punendo tutte le forze governiste: anzitutto i democratici, in maniera persino clamorosa, ma poi anche i centristi e pure Forza Italia, che è stata a inizio legislatura nel giro di governo. È comprensibile dunque che Renzi non veda ora motivi per svenarsi a favore dei Cinque Stelle: sarebbe, peraltro, la più completa sconfessione delle cose fatte e dette finora, al governo e in campagna elettorale. Ma se Renzi perdesse il controllo del partito già nelle prossime settimane? I segnali di insofferenza, i malumori e le aperte critiche si son fatti subito sentire. In questione non è ovviamente l'ammissione della sconfitta e l'assunzione di responsabilità da parte del segretario uscente e del suo gruppo dirigente, ma proprio l'atteggiamento da tenere verso il M5S.
 
Renzi chiude, ma dentro il Pd c'è chi vorrebbe aprire. A cominciare dalla minoranza di Emiliano, Orlando, Cuperlo, per proseguire con i franceschiniani, che pure sono stati finora nella maggioranza renziana. Non hanno numeri sufficienti, né nel Partito né nei futuri gruppi parlamentari, ma non rinunciano a chiedere al segretario un immediato passo indietro. E non è detto che nelle prossime settimane non compiano gesti di aperto dissenso nei confronti della linea dettata da Renzi. A cominciare proprio dalla elezione dei Presidenti delle Camere: l'amo lanciato da Di Maio. Come finirà lo scontro nel Pd non è dato sapere, e non lo si saprà almeno fin quando non si conosceranno due numeri: quelli di cui ha bisogno il M5S per governare, quello dei possibili congiurati nel Pd.

Diverso è lo scenario come lo si descrive dalle parti del centrodestra. Qui Matteo Salvini, uscito da trionfatore dal voto, fa un ragionamento molto semplice. La coalizione di centrodestra ha più deputati e senatori, dunque è naturale che Mattarella dia al centrodestra l'incarico. Non dice altro, Salvini: non dice nemmeno che incarico al centrodestra significa incarico a lui, al leader della Lega. Non lo dice perché sa che accentuerebbe le difficoltà, sia nei confronti dell'alleato Berlusconi, che deve ancora digerire la sconfitta, che nei confronti del Quirinale, che vede tutta la portata dirompente di un governo a guida leghista, soprattutto nei confronti dell'Europa. Le sue parole sono dunque state più sfumate: ho preso un impegno che «riguarda la coalizione di centrodestra, con cui abbiamo il diritto e il dovere di governare». Salvini si è limitato a indicare l'area che ha la maggioranza politica in Parlamento: tanto può e deve bastare per le prime determinazioni del Capo dello Stato. Quel che poi ci vorrà per fare davvero un governo si vedrà. E anche in questo caso dipenderà dai numeri finali: solo quando si saprà quanti seggi mancano alla maggioranza assoluta si potrà dire quali chance concrete ha il leader della Lega di fare il primo ministro.

Un'ultima ipotesi rimane da prendere in considerazione: che nasca un governo dei vincitori, cioè dei Cinque Stelle e della Lega. Insieme arrivano effettivamente al 50%, anche se per ora la somma dei loro voti appare politicamente complicata. Dico per ora, perché rimane comunque una possibile via d'uscita, qualora né il centrodestra a trazione leghista riesca ad attrarre voti in settori centristi del Parlamento, né riesca ai grillini di attirare consensi a sinistra, fra quanti proveranno a scompaginare i giochi a sinistra. A fare uscire il Pd dal bunker renziano, come ha detto Andrea Orlando.

Se però non accade né l'una né l'altra cosa, tertium datur: si dà una terza ipotesi. Che pur di evitare un Gentiloni in regime di proroga, e un ravvicinato ritorno alle urne, Salvini e Di Maio comincino davvero a parlarsi. D'altronde, Di Maio si è rivolto a tutti, e Salvini ha detto solo quel che intende fare in prima battuta: su quel che dovesse venire dopo non ha detto nulla. Dopo tutto: non è così che è andata in Germania? I socialdemocratici hanno negato la disponibilità a rifare la grande coalizione con la Merkel, e la Cancelliera si è dunque rivolta a liberali e verdi. Ma il tentativo è naufragato e CDU e SPD sono tornati sui loro passi, reincontrandosi a distanza di qualche mese.
E ora a nascere è proprio il governo tra i due partiti principali. Che in Germania sono ancora popolari e socialisti, mentre da noi sono ormai due formazioni populiste, Lega e Cinque Stelle, fuori dalle famiglie europee tradizionali. Una cosa mai vista finora, in Italia o altrove, ed è perciò del tutto comprensibile che non si capirà subito come andrà a finire.

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