Autonomia e tasse, il bottino del Nord: il Veneto punta a 6 miliardi extra

Autonomia e tasse, il bottino del Nord: il Veneto punta a 6 miliardi extra
di Marco Esposito
Giovedì 3 Gennaio 2019, 07:00 - Ultimo agg. 19:09
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In gioco ci sono 32 miliardi di euro. Una cifra non difficile da afferrare: sono un po' più di 500 euro per italiano. Meno facile è spiegare il conteggio dei cosiddetti «residui fiscali», un meccanismo in apparenza tecnico ma che sta spaccando l'Italia più di quanto non sia già. Una formula che è indispensabile capire nei giorni decisivi per l'autonomia differenziata, con il governo che si è impegnato a ultimare i calcoli ministero per ministero entro il 15 gennaio.

Il dibattito in corso, in effetti, non sempre aiuta a fare chiarezza. Il governatore del Veneto, Luca Zaia, si augura che «tutti si zittiscano: gli increduli, gli scettici, quelli che difendono gli sprechi e soprattutto coloro che tifano perché non si faccia nulla». Ma di fronte a una riforma che lui stesso definisce «storica» il confronto va invece auspicato, soprattutto se si basa su argomenti, su dati reali.
 
Peraltro nello stesso Mezzogiorno ci sono posizioni diversificate. Il presidente della Puglia Michele Emiliano si è detto favorevole al processo di autonomia differenziata, quello della Campania Vincenzo De Luca è invece pronto a dare battaglia mentre il ministro del Sud Barbara Lezzi in un messaggio d'auguri diffuso su Facebook ha gettato acqua sul fuoco ricordando che «la Costituzione tutela anche i territori più poveri» e impegnandosi a «ripristinare l'equilibrio nel nostro Paese» senza avvertire l'incoerenza tra i due messaggi, visto che se la Costituzione bastasse a tutelare il Sud, dopo 70 anni non ci sarebbe uno squilibrio da correggere.

Sergio Chiamparino, che per il suo Piemonte ha chiesto dodici materie aggiuntive su 23, ha toccato il tema dei soldi: «C'è un equivoco di fondo - ha detto in un colloquio con il Corriere della Sera - l'articolo 116 della Costituzione non prevede che uno possa toccare la quota fiscale che ogni Regione lascia allo Stato centrale. Prevede solo che, a fronte di maggiori competenze, uno abbia maggiori risorse per farvi fronte».

Ma è davvero così? C'è davvero questa garanzia contro gli egoismi regionali, come suggerisce Chiamparino? Purtroppo no. La Costituzione si limita a dire che le funzioni assegnate alle Regioni e agli altri enti locali vanno integralmente finanziate. Ma, in assenza dei livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali, non c'è un minimo da finanziare in tutto il territorio nazionale e quindi si apre la strada alla richiesta, fatta soprattutto dal Veneto e dalla Lombardia, di trattenere una parte del residuo fiscale sul territorio, tanto non si sta togliendo il minimo indispensabile agli altri, perché quel minimo non è mai stato definito, con diciassette anni di disattenzione costituzionale dopo la riforma federalista del 2001. Infatti è lo stesso accordo firmato il 28 febbraio 2018 tra il governo Gentiloni e le tre Regioni capofila dell'autonomia (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna) a prevedere per le risorse che per misurare i «fabbisogni standard» dei territori si deve tener conto di due cose: la «popolazione residente» e il «gettito dei tributi maturati nel territorio regionale», stabilendo quindi il principio davvero sorprendente che una famiglia di tre persone che guadagna 3.000 euro ha lo stesso fabbisogno di istruzione e sanità di una famiglia di 6 persone che guadagna 1.500 euro al mese, perché è vero che la seconda famiglia è più numerosa, ma la prima versa più imposte. Questa regola, estesa dalla singola famiglia a una Regione, porta a creare una sorta di «bonus ricchi» per finanziare meglio la sanità e l'istruzione nei territori dove è più alto il Pil.

Il «bonus ricchi» può essere esattamente calcolato mettendo insieme i Conti pubblici territoriali (la banca dati delle uscite e delle entrate Regione per Regione) e la richiesta di Zaia di trattenere in Veneto «i nove decimi» del gettito dei tributi maturati nella Regione. Oggi il Veneto ha uno squilibrio, chiamato residuo fiscale, di oltre 12 miliardi l'anno, ma se trattenesse sul territorio i nove decimi avrebbe 6 miliardi in più. Alla Lombardia il «bonus ricchi» porterebbe 20 miliardi, mentre altri 6 miliardi finirebbero all'Emilia Romagna, sempre applicando la regola dei nove decimi. Il Piemonte invece resterebbe in pari. In tutto ci sarebbero 32 miliardi extra da ripartire gradualmente fra le tre aree ad elevato reddito (più qualcosina per la Toscana), euro che andrebbero sottratti al resto d'Italia, a meno che non si immagini di aumentare le tasse per coprire il «bonus ricchi».

In Veneto, come in Lombardia e un po' in tutto il Nord si sottolinea che quelli sono «soldi loro», cioè frutto della ricchezza prodotta sul territorio. Tuttavia in ogni Paese ci sono sia imposte locali, che giustamente vengono spese esclusivamente nel territorio, sia nazionali, che servono ad alimentare la cassa comune per la difesa, l'istruzione, la sanità e così via. Non esiste quindi una quota di tasse locali che la Regione «lascia allo Stato centrale», come dice Chiamparino, perché è lo Stato a definire Iva e Irpef. Con la formula balorda dei «residui fiscali», invece, si considerano fittiziamente «locali» tutte le imposte, con un principio che, se portato all'estremo, spingerebbe gli abitanti di via Montenapoleone a Milano o via Camerelle a Capri a chiedere che l'Iva pagata in quei negozi sia spesa per nove decimi in favore dei residenti in quelle strade.

Le tabelle dei Conti pubblici territoriali sui residui fiscali, semmai, andrebbero lette verificando se la spesa è omogenea sul territorio, come promette la Costituzione. Si scoprirebbe che non lo è affatto, visto che si va da un massimo di 18.265 euro procapite in Valle d'Aosta a un minimo di 10.081 euro per un residente in Campania.
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