Gentiloni (commissario Ue agli Affari economici) al Mattino: «L’Italia cresce più del previsto»

Gentiloni (commissario Ue agli Affari economici) al Messaggero: «L’Italia cresce più del previsto»
Gentiloni (commissario Ue agli Affari economici) al Messaggero: «L’Italia cresce più del previsto»
di Barbara Jerkov
Lunedì 3 Maggio 2021, 07:00 - Ultimo agg. 4 Maggio, 08:34
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Ottimista. Così si è detto l’altro giorno Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici, commentando sui social i dati relativi alle previsioni di crescita dei principali Paesi europei. 

Davvero il peggio è alle spalle e l’Europa torna a crescere, presidente Gentiloni?
«Parlavo di ottimismo nel commentare dei dati ancora negativi, nel senso che abbiamo avuto sia nel quarto trimestre dell’anno scorso che nel primo trimestre di quest’anno, un lievissimo segno meno: 0,5% di crescita negativa. Ricordavo tuttavia che la ripresa è in atto e sarà particolarmente forte nella seconda metà dell’anno. Quindi per rispondere alla sua domanda: sì, si torna a crescere. La reazione molto veloce e forte delle istituzioni Ue e di conseguenza dei singoli Paesi, ha attutito le conseguenze di un 2020 drammatico per l’economia reale. Naturalmente dietro questi numeri ci sono ferite sociali molto gravi da rimarginare. Penso al lavoro di giovani e donne o a settori tuttora in crisi nel commercio, nel turismo, nella ristorazione, nella cultura. Tuttavia l’ondata è stata contenuta e io credo che il vento di ripresa potrebbe anche esser più forte del previsto. La sfida sarà la qualità di questa crescita: se sarà sostenibile e se sarà duratura, non sarà solo un rimbalzo post crisi». 

Possiamo azzardare dei numeri per l’Eurozona e soprattutto per l’Italia?
«Nelle previsioni d’inverno della Commissione parlavamo di crescita del 3,8% per il 2021 e 2022. Presenterò le nuove previsioni di primavera tra una decina di giorni e credo che potrebbero essere anche migliori. L’Italia? Potrebbe avere un buon livello e godere in particolare di una ripresa forte. Però, ripeto, il tasso di crescita è importante: il Fmi ha parlato per l’Eurozona di un tasso di crescita superiore al 4%, numeri che non vedevamo dal secolo scorso in Europa. Ma tutto ciò deve corrispondere a una economia più verde e a una crescita che non sia solo una fiammata dopo la caduta».

Di certo l’impressione è che a Bruxelles non veniamo più guardati con lo scetticismo di un passato ancora recente. S&P ha parlato di un effetto Recovery sul Pil di 6,5 punti percentuali nei prossimi 5 anni, che si ridurrebbero a 1,9 in uno scenario a basso impatto. Vuol dire che i tempi e il come realizzeremo le riforme promesse saranno altrettanto decisivi rispetto al quanto?
«Le nostre previsioni di primavera per la prima volta includeranno proprio l’impatto dei piani di Recovery. Direi che a contare non sarà tanto la velocità quanto il rispetto degli obiettivi e dei tempi previsti nel piano. E’ importante essere consapevoli del fatto che l’Italia ha messo sul tavolo tutte le carte disponibili. Si gioca, potremmo dire, l’intera posta, come cercando una spinta storica per uscire da oltre vent’anni di bassa crescita e alto debito. E’ una scelta giusta e impegnativa, non tutti i Paesi hanno utilizzato l’intero ammontare di prestiti disponibili. Questo vuol dire che il volume di risorse che arriverà sarà enorme e quindi il rispetto degli impegni presi, nei tempi che sono stati decisi, è fondamentale».

Cosa accadrebbe se una delle riforme previste dal piano non trovasse realizzazione nelle modalità e nei tempi previsti? C’è davvero il rischio che si blocchi il flusso di risorse?
«Sì. È insito nelle regole che gli Stati membri hanno deciso all’unanimità. Non dimentichiamo che questo piano viene da una decisione impensabile fino a un anno e mezzo fa di emettere un debito comune per obiettivi comuni. Una volta approvato il piano, tra due-tre mesi in media, ci sarà un primo finanziamento del 13% e poi via via ulteriori finanziamenti che arriveranno un paio di volte l’anno: per un Paese come l’Italia parliamo di tranche di una ventina di miliardi circa. Ebbene, sono legate al raggiungimento di obiettivi previsti nei tempi previsti. Se non vengono realizzati in modo sostanziale e se i tempi vengono disattesi in modo sostanziale, le tranche non arrivano. Non sarà una decisione discrezionale, perché tutto è stato fatto, tolto il primo finanziamento, per rendere questi successivi versamenti “oggettivi”».

Ci sono riforme, tra quelle promesse dall’Italia, che l’Unione considera più strategiche di altre?
«Ci sono delle priorità che riguardano tutti i Paesi europei, e che sono la transizione ambientale e la competitività digitale. Accanto a questi obiettivi generali, proprio perché ci giochiamo l’intera posta e andiamo in cerca di una spinta storica, per l’Italia sono fondamentali anche le riforme, da quella fiscale ai tanti aspetti legati alla concorrenza.

E la giustizia, per un accorciamento dei tempi del processo civile che li avvicini alla media europea. E poi ancora, le politiche attive sul lavoro, la pubblica amministrazione, soprattutto in rapporto all’economia: gli investimenti, gli appalti. La fatica di queste riforme mi è chiara. Al tempo stesso, nel momento in cui fai una scelta così ambiziosa, e Mario Draghi ha messo in fila risorse per quasi 250 miliardi, devi cogliere l’occasione».

La presenza di Draghi costituisce un’evidente garanzia agli occhi di Bruxelles. Il Financial Times è arrivato a scrivere che l’Italia da “delinquente” è diventata un modello. Non so se considerarlo esattamente un complimento, lei come l’ha letto?
«Certamente ho trovato la parola usata in quel titolo sgradevole. Ciò detto, la reputazione di Draghi costruita sul ruolo che ha svolto nella crisi precedente di fatto consentendo di salvare la moneta unica, aiuta in queste circostanze il nostro Paese. Sarebbe stato molto più difficile giocarci l’intera posta senza la sua leadership. Ciò premesso, non renderemmo un buon servizio a Draghi dipingendolo come l’uomo dei miracoli. L’impresa di portare a termine le riforme deve essere vissuta come una missione comune tra le forze politiche e sociali, tra le autorità centrali e territoriali. Se invece si cadesse nella tentazione di considerare il piano una sorta di mega finanziaria, in cui ciascuno cerca il proprio tornaconto da sbandierare, l’Italia non andrebbe molto lontano».

Ma agli occhi dell’Europa la credibilità dell’Italia è tutta e solo nelle mani di Draghi o qualcosa è cambiato più in generale? Anche perché il piano prevede una durata di sei anni che va ben oltre la legislatura e lo stesso governo Draghi...
«L’Italia è sempre stata un Paese importante, rispettato anche nei momenti più difficili. Ha avuto una sbandata con un governo che nel 2018 si è presentato come quasi ostile verso l’Unione, ma quella deviazione è rientrata abbastanza rapidamente. C’è poi da considerare il fattore Brexit, che ha portato l’Italia ad essere la terza economia dell’Ue. E la stessa instabilità politica che per anni ha caratterizzato il nostro sistema, è diventata una caratteristica piuttosto diffusa in Europa. Per non parlare dell’esaurirsi della leadership della Merkel, che della vecchia Europa è stata un punto di equilibrio che ora viene meno. Tutto questo per dire che il ruolo dell’Italia si rafforza e il fatto che in questo momento storico l’Italia sia rappresentata da una personalità come Draghi, ovviamente ci dà una responsabilità maggiore».

L’Italia è stata tra i primi paesi a consegnare il Piano. Ma altri Stati non l’hanno ancora ratificato, e senza ratifica non è possibile emettere gli eurobond necessari a costituire la provvista. Tanta puntualità per una volta è stata inutile?
«No. Perché non è solo un distintivo di cui fregiarsi ma è la premessa, se le ratifiche andranno in porto nei tempi auspicati, per poter avere prima della pausa estiva la prima tranche di finanziamento del 13%, che nel caso italiano è una ventina di miliardi. Naturalmente non è un problema di cassa ma di certezza a tutto il sistema che il piano sta progredendo».

Ora sta alla Commissione reperire sui mercati questa mole di denaro. 
«Non nutro alcun dubbio che sarà un successo. Abbiamo raccolto quasi 100 miliardi di debito comune per il meccanismo Sure che finanzia schemi nazionali come la cassa integrazione, e la domanda dei nostri bond europei è stata 15 volte l’offerta. Lo stesso sono sicuro avverrà quando faremo gli eurobond per il Recovery. L’incognita semmai sono i tempi di ratifica: mancano ancora 8 Paesi e in alcuni di questi non mancano le difficoltà, penso alla Finlandia, ma mi auguro che vengano superate al meglio».

In Italia resta ancora da sciogliere il nodo della governance. Riusciremo a spendere tutte le risorse messe a disposizione o teme che le pastoie burocratiche, i vincoli, le lentezze degli enti locali possano frenare i progetti?
«Primo, la parola governance non aiuta a capire di cosa stiamo parlando. C’è una responsabilità politica, che sarà di palazzo Chigi, del Mef e dei vari ministeri. Con il controllo del Parlamento. Poi c’è il problema delle procedure. E questa è una delle sfide più difficili. L’Italia è penultima tra i grandi paesi come capacità di assorbimento delle risorse europee. I fondi europei, di norma cofinanziati, restano lì: se fai tardi, vieni rimproverato ma le risorse non le perdi. Nel caso del Recovery, rischi la cancellazione di intere rate di questa enorme provvista finanziaria. Quindi occorre intervenire sulle procedure, introducendo modalità straordinarie, corsie preferenziali, semplificazioni, ed è esattamente quello che so che il governo sta facendo, per rendere l’assorbimento di questo ammontare di risorse nei tempi previsti, possibile».

Che il patto di stabilità, ora sospeso, non potrà tornare lo stesso di prima, ormai lo dicono un po’ tutti in Europa. Serve un tagliando dunque, ma in quale direzione? E, visti i gravi errori commessi in passato, con quale flessibilità?
«Farò alcune proposte alla Commissione verso la fine di quest’anno: abbiamo bisogno che intanto il Recovery decolli e che vi sia maggiore certezza sulla ripresa. Le cose sono molto cambiate da quando il Patto è stato stabilito e non possiamo guardare agli anni Venti con gli occhi di 15 anni fa: il debito medio è al 100% del Pil ed era vicino al 60 all’epoca di Maastricht, abbiamo un’enorme necessità di investimenti se prendiamo sul serio la transizione ambientale e la resilienza; abbiamo tassi di interesse che erano in media al 4% e ora intorno allo zero. Questo diverso mondo è la base per modificare le nostre regole comuni, conservando la necessità di avere però regole comuni. Si tratta di far diventare la qualità della crescita un pilastro almeno altrettanto importante quanto la stabilità finanziaria». 

Possiamo dire che la stagione del rigore ormai è archiviata, dunque?
«Nella mia testa sicuramente. Non sarà facile, però, come non è stato facile arrivare a un’intesa sul debito comune per il piano di Recovery: ci sono anche Paesi che pensano che si dovrebbe tornare dopo questa crisi alle regole precedenti. Io penso invece che abbiamo un’occasione storica visto che per la prima volta la Commissione dispone non solo di regole comuni ma anche di miliardi comuni, una bella differenza».

Presidente Gentiloni, la Russia ha vietato a Sassoli e altri sette esponenti Ue l’ingresso nel Paese come ritorsione sul caso Navalny. Un episodio destinato a cambiare gli equilibri tra Unione e Mosca?
«È grave che la Russia prenda di mira le istituzioni europee. Una cosa irragionevole che merita una risposta, che ci sarà».

Di cosa stiamo parlando, presidente? Nuove sanzioni?
«È una valutazione che stiamo facendo. Le istituzioni Ue meritano rispetto anche quando come nel caso Navalny esprimono opinioni non gradite al Cremlino».

Mosca rischia di ritrovarsi isolata?
«Abbiamo molte relazioni economiche e commerciali con la Russia. È chiaro che in questa partnership l’Ue non è il junior partner».

Un’ultima domanda, presidente, sul fronte Covid. Pensa che Bruxelles si sia mossa con la stessa determinazione? Il contratto con AstraZeneca si è rivelato pieno, come minimo, di lacune. Non tutti i paesi procedono alla stessa velocità sui vaccini. È ipotizzabile una sterzata dell’Unione sulla lotta alla pandemia nel secondo semestre?
«Non posso immaginare in che situazione ci troveremmo se non avessimo scelto di acquisire e distribuire in comune i vaccini. Ci troveremmo in guerre o guerricciole tra Paesi europei, guerre di cui beneficerebbe alla grande la propaganda esterna all’Unione, sarebbe una festa per il mercato nero e non certamente una garanzia per la salute dei nostri concittadini. L’Ue ha recuperato un ritardo iniziale, siamo il maggior esportatore di vaccini verso i Paesi poveri e emergenti, cosa questa che non solo ci porterà un tornaconto nei rapporti politici ed economici ma ancor prima un beneficio alla nostra salute. Mi lasci però aggiungere una considerazione più generale. I vaccini sono un buon esempio di una situazione in cui, giustamente, per i ritardi iniziali si è puntato il dito contro la Ue, salvo poi rendersi conto che questa dimensione europea era indispensabile, tanto che la Merkel ha proposto addirittura di adottare una politica comune della sanità. In fondo, questa pandemia ha rimesso in discussione tante velleità nazionaliste. Il 2020 sarà ricordato come l’anno in cui in molti casi l’Unione europea è passata dall’essere considerata un problema ad essere vista come parte della soluzione del problema. Anche in Italia non si chiede meno Europa ma al contrario si chiede all’Ue di fare di più». 

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