Giuseppe Conte, i tre errori fatali dell'ex premier che ha sottovalutato Renzi basandosi (solo) sul consenso

Giuseppe Conte, i tre errori fatali dell'ex premier che ha sottovalutato Renzi basandosi (solo) sul consenso
di Diodato Pirone
Giovedì 4 Febbraio 2021, 10:53 - Ultimo agg. 14:01
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È presto per fare il punto sull'esperienza da premier dell'avvocato Giuseppe Conte. Anche i suoi peggiori nemici tendono a concedergli l'onore delle armi visto che da un giorno all'altro è stato catapultato sul principale palcoscenico della politica italiana dove ha  imparato presto e in fretta regole del gioco taglienti e spericolate. Come è stato possibile, allora, nonostante l'indubbia abilità del personaggio, perdere la battaglia per Palazzo Chigi? Certo, col senno di poi è facile attribuire a Conte ogni genere di errori. Tuttavia, secondo gli osservatori, alcuni sono stati macroscopici.

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Il primo è senz'altro la sottovalutazione della politica.

Comunque si voglia giudicare Matteo Renzi va detto che a dicembre il leader di Italia Viva ha posto un problema schiettamente politico: a suo giudizio il governo era immobile per cui ha annunciato che lasciava la maggioranza. Non è questa la sede per stabilire se questa posizione fosse giusta o meno, resta il fatto che in una coalizione se un partito pone un problema lo si affronta e non lo si ignora né lo si derubrica a "scontro di personalità". Di fronte alla perdita di un partito della sua maggioranza Conte avrebbe dovuto affrontare il problema politicamente, aprendo trattative vere oppure dimettendosi subito, senza tentare di infilare il tema sotto il tappeto come se non ruotasse intorno a scelte politiche.

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Secondo errore: la lentezza come metodo. Il premier ha scelto di giocare la crisi secondo tempi da Prima Repubblica. Sulla base di stagionati schemi democristiani ha fatto vivere al Pese due mesi al rallentatore pensando che in questo modo qualcosa si potesse aggiustare. In questo è stato molto danneggiato dalla mancanza di qualsiasi aiuto da parte del suo parttito. Nei 5 Stelle non si sa chi comanda da quando, una vita fa, Di Maio si è dimesso da capo politico. Il partito è diviso in mille bande diverse alcune delle quali vivono in un mondo autoreferenziale ormai lontano da qualsiasi realtà. Conte si è rivelato prigioniero di questa ragnatela di veti incrociati del suo stesso partito, non ha potuto scegliere una via d'uscita degna di questo nome e al dunque ha scoperto di non avere carte in mano contro Renzi. La trattativa incredibile al Senato per acquisire la fiducia di figure improbabili come il senatore Ciampolillo ne hanno scalfito prestigio e mito di gran manovratore.

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Il terzo errore, forse quello più importante, è l'essersi affidato troppo alla comunicazione. Avrete sicuramente visto mille volte sui telegiornali e in particolare sul Tg1 le riprese di Conte che in cravatta e maniche di camicia avanzava a veloci falcate nei corridoi di Palazzo Chigi. Un'immagine di dinamismo e pragmaticità la cui costruzione risale alle radici dell'Istituto Luce. Ma non è con la comunicazione che si trovano i numeri in Parlamento e si affrontano nodi politici. E poi si è creata una frattura fra il messaggio di dinamismo  inviato al Paese e la concreta azione del governo sempre più avvolta in diatribe con le Regioni sul fronte della pandemia e della scuola. Le mediazioni fra governo e regioni sono arrivate al limite del tragicomico:  ricordate lo spostamento della riapertura delle scuole dal 7 all'11 gennaio data che poi non fu rispettata in quasi nessuna Regione? E il caso Autostrade? Qualcuno ricorda quante volte ne è stata annunciata la soluzione? Per mantenere in piedi una comunicazione a tutti i costi positiva e al limite del soporifero la gestione dei dossier è stata di giorno in giorno più lenta e più timida perché era fondamentale non scontrarsi davvero con nessuno. Questa sopravvalutazione della comunicazione ha danneggiato Conte anche durante la gestione della crisi tanto che il premier sembra aver creduto a una massima che si è rivelata sbagliata: non è vero che l'uomo politico più impopolare (Renzi) non può disarcionare quello più popolare (Conte). E il consenso in Italia cambia alla velocità della luce.

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