La giustizia boomerang che distrugge la politica

di Carlo Nordio
Mercoledì 20 Febbraio 2019, 08:00
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Ieri, durante un breve dibattito televisivo con l'ex ministro Flick, a margine della decisione della Giunta del Senato, la presentatrice ha mostrato una lunga scheda sui precedenti casi di immunità parlamentare. Al termine il professor Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, ha detto rispettosamente: «Avete fatto una scheda bellissima, che però non c'entra nulla».

Ecco, se dovessimo riassumere il senso di questo much ado about nothing (molto rumore per nulla) che ci tormenta da mesi, diremmo la stessa cosa. È stato creato un gigantesco polverone su una materia che quasi nessuno si era dato la briga di studiare. Perché il caso di Salvini era del tutto nuovo, e giustamente il presidente Gasparri ha detto che questo provvedimento farà giurisprudenza. Perché qui non si trattava affatto della solita immunità dietro la quale molti politici si sono riparati dalle indagini giudiziarie, ma di una garanzia ministeriale prevista da una legge costituzionale che ne affida la valutazione al vaglio politico.

Cosicché anche la petulante litania che «nessuno è al disopra della legge» suonava e suona come una contraddizione, perché è proprio questa Legge a dire che in presenza di un reato - ammesso che ci sia - il ministro non può esser processato se ha agito per un preminente interesse dello Stato.

E poiché il governo aveva solennemente confermato che la decisione era stata collegiale per attuare il programma politico concordato, la questione si sarebbe dovuta chiudere lì.

E invece non solo ha avvelenato il clima, ma ha fatto riemergere le dolorose contraddizioni del nostro sistema e di chi lo rappresenta.

La vittima maggiore è stata la Politica - nel suo senso più alto - che ancora una volta è sembrata succube dell'iniziativa della magistratura. Intendiamoci. Il Tribunale dei ministri ha fatto il suo dovere mandando tutto al Senato. Incidentalmente notiamo che se avesse voluto davvero perseguitare Salvini non avrebbe riconosciuto la ministerialità del presunto reato, e lo avrebbe affidato alla giurisdizione ordinaria. Ma dal momento che le carte sono arrivate in Giunta, e in presenza delle asseverazioni di Conte e dei due ministri, la questione si sarebbe potuta chiudere subito se ci fosse stata l'unanimità. Sarebbe stato un bel gesto se la sinistra avesse detto: «Noi ripudiamo indignati la scelta governativa, e protestiamo in nome delle ragioni umane e divine. Ma poiché è stata una scelta politica la combattiamo con argomentazioni politiche, e non pseudogiuridiche».

E invece no. La sinistra è caduta nella solita tentazione di valersi dell'ascia giudiziaria per invocare un processo che, chissà mai, avrebbe dato filo da torcere al roccioso avversario. Quelle timide promesse di garantismo che Renzi aveva a suo tempo formulato sono state smentite e sepolte dall'atteggiamento del Pd che si è aggrappato agli esempi impropri delle immunità parlamentari e ai soliti moralismi di maniera.

Il Fato tuttavia ha voluto che, proprio mentre la piattaforma grillina riconosceva la garanzia ministeriale a Salvini ( e al governo), arrivasse la notizia dell'arresto dei genitori di Renzi. Provvedimento discutibile, perché una custodia cautelare a carico di due settantenni incensurati, per fatti avvenuti anni addietro, emessa quattro mesi dopo la richiesta del pubblico ministero, lascia assai perplessi. Renzi ha reagito con dignità, proclamando fiducia nella giustizia, fiducia peraltro mitigata dall'osservazione che se non fosse entrato in politica forse questo non sarebbe accaduto. Tuttavia lo stesso Renzi aveva espresso - con nostro doloroso stupore un voto favorevole al processo di Salvini. E non basta. Ieri, a parti invertite, alcuni esponenti del Pd hanno reiterato le vociferanti invocazioni di Onestà- per un fatto che in ipotesi poteva anche esser criminale ma che di disonesto non aveva proprio nulla - così allineandosi alla peggiore tradizione giacobina. E per chiudere il cerchio delle dissennatezze abbiamo assistito alla replica di un senatore grillino che, facendo i gesto delle manette, si vantava di non avere parenti agli arresti domiciliari.

Concludo. In questa oscillazione di garantismi a senso unico e di confusione dei ruoli, la politica ha perso un'ottima occasione per affrancarsi dalla pesante ipoteca costituita dalle indagini giudiziarie, che da vent'anni la condiziona e talvolta la umilia. Il rifiuto di processare Salvini va infatti ben oltre la persona del ministro e dei componenti del governo. Sarebbe il primo passo per affermare la preminenza della politica sulla giurisdizione, quando è la stessa Costituzione a riconoscere questa necessità. Mentre questo incoraggiante indizio si è dissolto davanti ai cartelli dei democratici e al gesto manettaro del senatore Giarrusso, che agendo d'istinto ha rivelato quell'aspirazione giustizialista che per un attimo era sembrata sopita. Ma, come dicevano i vecchi saggi, «l'arte si imparte, ma la natura vince».
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