Gli slogan non aiutano
a cambiare l'Europa

di Paolo Balduzzi
Mercoledì 15 Maggio 2019, 09:23
4 Minuti di Lettura
Strano Paese quello in cui la campagna elettorale per le elezioni politiche, nell’ormai lontano febbraio del 2018, si condusse per la gran parte su temi legati all’Europa (a suon di sovranismo, uscita dall’Unione, riforma delle istituzioni e addio alla moneta unica), mentre la campagna elettorale per l’elezione del Parlamento europeo si è portata avanti, fino a poche ore fa, solo ricorrendo a proposte squisitamente nazionali (flat tax, reddito di cittadinanza, anticipi pensionistici e così via). 

A rompere quest’assordante silenzio, interrotto solo da poche eccezioni (l’”europrogramma” del Movimento 5 Stelle o la proposta di salario minimo europeo da parte del Partito democratico) è arrivato il vicepremier Salvini, rispolverando un vecchio cavallo di battaglia: lo sforamento del deficit. Come se le tensioni autunnali con la Commissione europea fossero ormai dimenticate, come se il rating dell’Italia sui mercati non sia mai stato un problema, come se la ripresa della corsa dello spread non producesse danni al bilancio e al benessere degli italiani, l’impressione è che l’uscita del leader leghista abbia tutt’altre finalità che quelle di stimolare un dibattito. Perché, se questo fosse il caso, assisteremmo a una presa di posizione argomentata, orientata a sfidare l’Unione sul tema degli investimenti e della crescita. Ma non è così: e sembra se ne sia accorto subito anche l’altro vicepremier Di Maio, preoccupato dall’ennesimo elemento di tensione e di rottura all’interno della maggioranza.

Il dato di fatto è quindi che non esiste alcun disegno serio di riforma dell’Unione e nessuna proposta concreta che impegni il futuro Europarlamento. I partiti politici vedono le elezioni europee sempre di più come metro di misura e di aggiornamento della propria forza elettorale e sempre di meno come mezzo per partecipare attivamente allo sviluppo delle istituzioni europee stesse.

E i cittadini come vedono le elezioni europee? Certamente in maniera non entusiasmante: nel 2014, per esempio, il tasso di partecipazione fu solo del 57%, a fronte di un’affluenza del 73% per le politiche del 2018. Per quali ragioni? Da una lato, anche per responsabilità proprie, l’Unione europea è vista come un complesso di istituzioni molto lontane dalla vita di tutti i giorni. Dal punto di vista dei diritti politici, per esempio, la legge elettorale discrimina insopportabilmente i giovani italiani: ma c’è da scommettere che nessuno lo sappia davvero o che se ne preoccupi. Più realisticamente, questa distanza è causa dell’incapacità delle istituzioni di comunicare con i cittadini. Ma naturalmente non si nemmeno può ignorare che questa visione sia spesso e volentieri mediata e anzi incentivata dai partiti politici stessi. E maggiormente responsabili sono quei partiti e quei movimenti che più hanno fatto della discontinuità in Europa il proprio cavallo di battaglia nel recente passato: a loro spetta innanzitutto l’onere di indicare come vorrebbero cambiare, riformare, ricostruire – o al limite anche smontare – questa Europa e le sue istituzioni.

Vorremmo sapere quali iniziative dovrebbe prendere il nuovo Parlamento in tema di coordinamento fiscale, di lotta all’evasione su base continentale (i paradisi fiscali sono ancora vivi e vegeti, dentro o alle porte dell’Unione), di gestione dei flussi migratori, di politica ambientale, di allargamento o restringimento dei confini, e, naturalmente, di disciplina fiscale degli stati membri e possibilità di rinegoziare i propri impegni o di introdurre ulteriori forme di flessibilità. E invece niente o quasi di tutto questo caratterizza la campagna elettorale, se non per le solite provocazioni o per i partiti più piccoli (Europa Verde e Più Europa, per esempio), proprio quelli che più faticheranno per superare la soglia di sbarramento del 4% e quindi per ottenere rappresentanza nel nuovo Parlamento europeo.

A questo proposito, la collocazione dei partiti nazionali su base europea appare meno scontata e più problematica di una volta: ma davvero questo basta per giustificare un così grande disinteresse nei confronti di queste elezioni? Anche la selezione del personale politico risente di un certo disimpegno da parte dei partiti. In un recente articolo, pubblicato su www.lavoce.info insieme a Silvia Picalarga, evidenzio come a fronte di note positive sul fronte della presenza di donne e laureati nelle liste dei candidati, restano i soliti problemi sull’età media dei candidati (vicino ai 50 anni). In aggiunta, anche se poco rilevante in termini statistici, la presenza di molti leader politici che sicuramente mai lasceranno cariche nazionali per diventare eurodeputati perpetua il vecchio vizio di personalizzare le elezioni, mettendo in secondo piano (o addirittura sotto un tappeto, come in questo caso) i temi di discussione.

Fare proposte in campagna elettorale significa prendersi degli impegni con i propri elettori: nella politica moderna, tuttavia, l’attenzione per le sorti e il benessere degli elettori è sostituita dalla ricerca di consenso fine a se stesso. Un consenso, oggi, che è ancora più immediato di quello esprimibile solo periodicamente con un voto e che si nutre invece di “like” e “follower” istantanei sui social network. La differenza tra la leadership politica, che guida, orienta e interpreta elettori e cittadini nel medio periodo, e leadership virtuale, che invece li subisce in tempo reale, sta tutta nel vuoto e nei soliti ritornelli che i partiti ci offrono in queste settimane. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA