Facebook e i social
senza la società

di Aldo Masullo
Giovedì 5 Aprile 2018, 08:20 - Ultimo agg. 09:23
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La rivelazione del mercimonio, compiuto da Facebook, di milioni di dati personali accumulati all’insaputa degl’interessati, è caduta fragorosamente come un inatteso macigno nelle acque lutulente e chete dei social, facendone schizzare fango dal fondo. Mentre d’ogni parte si è gridato allo scandalo e sono piovute le contestazioni istituzionali, è esplosa senza molto rumore l’imbarazzante contraccusa di Federico Rampini: «a partire da quale momento, con quale livello di consapevolezza, abbiamo firmato il patto leonino per cui vendiamo la nostra anima ai social media, in cambio di un po’ di servizi gratuiti?»

Io credo che né l’aria scandalizzata, né le contestazioni istituzionali, né la stessa capitale domanda di Rampini siano adeguate all’enorme questione che si è aperta nel mondo. In questi ultimi anni, tra il finire del XX secolo e gl’inizi del XXI, l’idea stessa di politica è stata stravolta dal velocissimo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, soprattutto dalla digitalizzazione. La politica “neo-liberale” (che di liberale non ha nulla, anzi ne è la negazione), proclamata e purtroppo dominante a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, si dispiega ormai tutta nel modo nuovissimo, che la tecnologia digitale oggettivamente comporta rovesciando a fondo la forma stessa dell’essere sociale.

Nel Novecento la filosofia politica aveva assunto come fondamentale categoria la “bio-politica”. Sulla scia delle riflessioni di Walter Benjamin e delle analisi di Michel Foucault, la politica dell’età moderna apparve come il decisore supremo del modo d’essere significativo dell’individuo ridotto per il resto a irrilevanza di “nuda vita”. Alla politica spettava la gestione totale dell’umano civile, secondo il modello della società disciplinare, basata sul controllo massivo dei corpi. Della vita insomma, nel bene e nel male, la politica sembrava disporre interamente: ne curava tutti i “bisogni”, come nello Stato del Welfare, o al contrario la annientava come nei “campi” dello Stato nazista. 

Nel Duemila il quadro appare radicalmente mutato. Categoria fondamentale della filosofia politica è ora la “psico-politica”. Deperito lo Stato, il potere sociale si è dislocato altrove, appunto in quei luoghi senza luogo, i “social”, i cui soci sono moltitudini senza società, folle indifferenziate che in cambio di banali “comodità” cedono informazioni personali. Un siffatto potere non si esercita sui corpi, ma sugli “animi”.
Rapidissimamente, nel giro di poco più di un decennio, al centro della scena, dominandola, si è posto il modello psico-politico del controllo massivo delle menti.

Quattro anni fa in Germania, e due anni dopo, tradotto, in Italia, usciva il piccolo ma taglientissimo libro, intitolato Psicopolitica, di Byung-Chul Han, filosofo coreano attivo in Germania. Vi si denunciava come la pratica invasiva delle immense raccolte di dati personali, i “big data”, rendendo leggibili al potere i nostri desideri e le nostre più riposte tendenze, funziona come un controllore capillare, quasi versione digitale del “panopticon” immaginato da Bentham alla fine del Settecento. Tale pratica è assai efficiente nella selezione di una popolazione. Essa espelle dal sistema gl’individui che in quanto privi di valore economico sono «spazzatura»; invece agl’inclusi e integrati dà l’illusione di essere liberi. Il potere infatti non li controlla, ma li riduce a controllori di se stessi per suo conto: «il soggetto digitalizzato, interconnesso, è un panottico di se stesso»!

Chi avesse letto queste pagine, non si sarebbe affatto sorpreso, né tanto meno “scandalizzato”, dell’episodio della Cambridge Analytica. Se suscita scalpore l’illiceità della cessione di dati personali ricavati e detenuti all’insaputa degli utenti, non si può peraltro ignorare che nel sistema del mercato senza regole la ragione intrinseca della formazione di enormi depositi di dati personali è il loro sfruttamento. I big data perciò non valgono, se non crescono in modo esponenziale, inghiottendo sempre nuove e più dettagliate informazioni, “liberamente” fornite dagl’individui su cui, proprio grazie ad esse, il potere economico può esercitare il suo sfruttamento.

Le aziende e le autorità istituzionali adesso si affannano a rassicurare gli utenti, promettendo adeguate misure giuridiche. Il che però è oggettivamente ingannevole. Le maglie del diritto, per quanto si stringano, non saranno mai capaci di contenere seriamente l’enorme pressione affaristica dei big data, nutrita dall’irresistibile impulso degli stessi utenti dei social. Come nel caso della droga diffusa, anche qui sono gli sfruttati a sostenere l’azione degli sfruttatori. Si attua insomma una “servitù volontaria” di massa. Mentre gl’individui dischiudono le più riposte pieghe della loro psiche - gusti, desideri, sogni, perfino propensioni inconsapevoli – , le aziende informatiche non solo accumulano i dati personali ma sempre più finemente ne traggono quasi perfetti “profili” di milioni d’individui, uno per uno, in modo da poter sempre meglio manipolarne le scelte.

Chi può essere tanto ingenuo da immaginare che un così esteso potere possa limitarsi a fare profitti e non finisca per essere potere politico? Di fatto, per lo meno a cominciare dalla votazione per la presidenza degli Usa, già non sono mancati sospetti di uso mediatico dei “big data” per interferenze nelle sorti elettorali di questo o quello Stato

“Democrazia”, come ben si sa, è il potere del popolo (“demos”), cioè dei cittadini che, ascoltando e liberamente discutendo si dividono per correnti di motivate opinioni e alla fine di comune accordo e ciascuno secondo ragionata persuasione scelgono decidendo col voto tra le diverse proposte.

Invece la situazione politica in cui, saltandosi ogni dibattito, si decide per semplice conta dei “sì” e dei “no” a secchi questionari ogni volta confezionati altrove, il potere è mera “oclocrazia”, esercizio decisionale inautentico di una moltitudine (“oklos”). Ha ragione Byung-Chul Hang: in questo caso funziona la “volontà generale” di Rousseau, che «si forma senza discorso e senza comunicazione». Al dibattito si sostituisce la statistica.

Il guaio, che Rousseau non riuscì a immaginare, è che i “sì” e i “no” registrati statisticamente non sono spontanei, ma determinati dall’incontrollabile manipolazione “digitale” del potere che pone le domande, cioè dai padroni dei big data.
In gioco è la condizione suprema della politica, la libertà dei cittadini.
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