Monito di Cantone al Parlamento:
«Antimafia, la riforma è dannosa»

Monito di Cantone al Parlamento: «Antimafia, la riforma è dannosa»
di Alessandro Barbano
Domenica 2 Luglio 2017, 00:00 - Ultimo agg. 23:48
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Presidente Raffaele Cantone, il Senato si appresta ad approvare in prima lettura una riforma del codice antimafia che estende le confische e i sequestri di patrimoni nei confronti degli imputati di reati contro la pubblica amministrazione, compreso il peculato semplice. Uno dei più autorevoli studiosi del diritto penale, Giovanni Fiandaca, ritiene la riforma di nulla utilità e «frutto di un populismo penale onnivoro, che strumentalizza politicamente la lotta alla corruzione come spot elettorale». Uno dei maggiori costituzionalisti italiani, Sabino Cassese, la giudica contraria alla Carta e controproducente nella lotta alla corruzione, perché - dice - avrà solo l’effetto di scoraggiare gli onesti. Lei pensa che la riforma sia giusta? E necessaria, o almeno utile?
«Condivido le preoccupazioni espresse dai due illustri cattedratici, certamente più autorevoli di me. La modifica che si vuole approvare al Codice antimafia non è né utile, né opportuna e rischia persino di essere controproducente. Non è utile nei confronti delle organizzazioni mafiose che utilizzano la corruzione, perché in tali casi può certamente già utilizzarsi la normativa vigente; non è opportuna e non serve nemmeno per le altre vicende di corruzione, perché, come ha già sperimentato con successo la Procura di Roma, anche in questo caso la confisca di prevenzione può essere adottata a legislazione vigente, in presenza, però, di episodi reiterati che dimostrino che il soggetto trae risorse in via non episodica dalla corruzione. Rischia, invece, di essere persino controproducente, perché la legislazione antimafia ha retto rispetto ai dubbi di legittimità costituzionale e a quelli di contrasto alle convenzioni internazionali, proprio per il suo carattere eccezionale e per il fatto di essere rivolta a organizzazioni pericolose come le mafie; un’estensione così ampia anche a reati non mafiosi, per paradosso, potrebbe portare a rivedere queste posizioni e quindi rendere concreto il rischio di una declaratoria di illegittimità dell’intero impianto normativo, sguarnendo il campo dell’antimafia di un presidio che si è dimostrato molto importante».
Nel provvedimento in discussione al Senato, si è deciso di porre un argine all’uso indiscriminato dei sequestri e delle confische, condizionandoli alla presenza di un’ipotesi indiziaria di associazione per delinquere. Secondo il procuratore antimafia Franco Roberti questa limitazione è una garanzia sufficiente a rendere la riforma coerente e valida. Secondo un altro autorevole studioso del diritto penale, Vittorio Manes, è invece addirittura dannosa, perché potrebbe persino alimentare un pericoloso circolo vizioso: aggravando la tendenza – già molto diffusa specie in sede inquirente - a contestare la fattispecie associativa anche in assenza dei suoi reali presupposti, in modo da poter domani ottenere, se non la condanna, una confisca di prevenzione. Qual è la sua opinione?
«L’intervento del procuratore nazionale antimafia dimostra la serietà della preoccupazione per i possibili effetti di una eccessiva estensione applicativa di una normativa di prevenzione, estesa ai reati contro la pubblica amministrazione; non credo però che il rimedio suggerito da Roberti sia davvero in grado di sterilizzare i rischi, atteso che da un lato basterebbero meri indizi dell’esistenza di un’associazione a delinquere per disporre la confisca, e sotto altro profilo si potrebbe persino impedire una confisca, oggi possibile, per quei corrotti che, fuori dai circuiti associativi, utilizzassero sistematicamente la corruzione per arricchirsi. Lo dico con umiltà e grande rispetto del Parlamento, che in buona fede crede di fornire un nuovo strumento per contrastare il cancro corruttivo, ma credo che questa riforma rischi di portare vantaggi di gran lunga inferiori ai possibili effetti negativi sul sistema complessivo».
Ma se questa è la sua valutazione c’è da chiedersi come sia possibile che il Parlamento sia giunto a un passo dall’approvazione senza aver consultato il rappresentante più autorevole della lotta alla corruzione in Italia, cioè lei. Oppure i relatori l’hanno consultata e hanno fatto il contrario?
«Le Commissioni parlamentari del tutto legittimamente hanno ritenuto di non sentirmi. Lo dico con convinzione: il Parlamento è sovrano, anche nel decidere chi audire. E non credo di essere portatore di verità assolute senza le quali non si può decidere. Del resto, in questo ultimo anno, sono state tantissime le volte in cui le commissioni parlamentari hanno chiesto la mia audizione sui temi più vari e ho fornito sempre con entusiasmo il mio contributo».
Fiandaca spiega quest’esito con l’incompetenza del Parlamento e la preoccupazione del Pd di non essere accusato dai grillini di difendere i corrotti. Condivide l’analisi? E se la condivide, come può il Pd sottrarsi al ricatto giustizialista che ne condiziona ormai da anni la sua azione?
«Non penso di aver titolo alcuno per discutere delle scelte del Pd. Sono valutazioni politiche che non mi spettano e dalle quali è giusto che io resti lontano. Credo, invece, che il giudizio del professor Fiandaca sia troppo severo rispetto all’incompetenza del Parlamento. Io credo, al contrario, alla buona fede di gran parte dei parlamentari che sostengono questa iniziativa, convinti della sua bontà. Certo, prevale in alcuni di essi un’idea che non condivido ma che trova molto consenso nel Paese, e cioè pensare di risolvere tutti i problemi con norme sanzionatorie che finiscono, di fatto, con il delegare la soluzione sempre alla magistratura penale».
Tuttavia, non le pare che una forte pressione sul ruolo del governo, del Pd e del Parlamento sia esercitato da quello che noi, con dichiarata malizia, definiamo il partito dell’Antimafia? Cioè una quota di parlamentari, magistrati, burocrati e amministratori che con l’Antimafia mangiano?
«Credo che questa affermazione sia ingenerosa. Non c’è (purtroppo) nessun partito dell’antimafia, anche se fortunatamente ci sono molti in Parlamento e fuori che si riconoscono nel comune sentire della priorità della lotta alla mafia. A questo immaginario e ideale partito, se esistesse, mi iscriverei senza pensarci un attimo. Capisco bene, tuttavia, a che cosa allude: a quei cosiddetti professionisti dell’antimafia, come li qualificò Sciascia, e a quell’antimafia di facciata che, in casi per fortuna ridotti, ha utilizzato questo brand per ragioni solo personalistiche, o peggio ancora per fare carriera o affari. Questi professionisti spesso sono quelli che urlano di più e brandiscono strumentalmente la lotta alla mafia per altri fini. Questi signori, alla lunga, si stanno rivelando il peggior nemico della vera antimafia, perché consentono generalizzazioni che fanno di tutta l’erba un fascio».
Però ammetterà che da anni è noto il flop del sistema di prevenzione attraverso il quale sono state confiscate 18mila aziende, per un fatturato complessivo di 21 miliardi di euro e un numero di occupati pari a 250mila unità. Questa enorme manomorta giudiziaria, affidata in piena autonomia e non senza casi di opacità dalle Procure agli amministratori giudiziari, è destinata a una perdita di valore clamorosa, quando non al fallimento. Da anni si parla di una riforma diretta a limitare l’uso indiscriminato di sequestri e confische da parte delle Procure. La stessa presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi, aveva assunto un impegno in questa direzione. Invece accade l’esatto contrario: la riforma arriva per moltiplicare l’interventismo delle Procure con provvedimenti emergenziali. È difficile non pensare che ciò risponda a una precisa strategia diretta a mettere sotto tutela della magistratura, dopo la politica, anche l’economia.
«Alcune innegabili patologie nell’utilizzo delle confische antimafia non possono mettere in discussione l’importanza dello strumento: togliere i beni ai mafiosi è stata l’arma vincente per indebolire le organizzazioni criminali. Lo Stato, poi, si è trovato impreparato a gestire una quantità enorme di beni e a farlo senza aver messo in campo i giusti strumenti. Qualche speculatore o affarista certamente ha approfittato di questa disorganizzazione per fare affari di vario tipo. Tuttavia questa constatazione impone solo di gestire in modo più rigoroso i beni confiscati, utilizzando criteri trasparenti, anche nella liquidazione delle parcelle agli amministratori, ma non certo di abbandonare quella legislazione. Quanto alle imprese che falliscono, si può e si deve fare di più, ma molte di queste imprese hanno prosperato grazie al loro know-how mafioso e, quando sono state sottratte ai clan, non potevano che fallire. Anche in questo caso non è giusto fare generalizzazioni. E la riforma del Codice antimafia doveva servire proprio e soprattutto a mettere ordine in questo mondo».
Più in generale il nuovo Codice antimafia modificato è l’ultimo tassello di uno spostamento dell’afflittività della sanzione penale verso la dimensione cautelare. Non le pare che in questo modo si dia il colpo di grazia al già debole ruolo del giudicato del processo penale italiano?
«Non credo sia del tutto così. La riforma del codice antimafia si muove verso un obiettivo corretto, e la destinazione dei beni confiscati è essa stessa uno dei momenti di contrasto delle mafie. Semmai bisogna impedire che i beni si depauperino per evitare che i cittadini pensino che “si stava meglio quando si stava peggio”. E poi lo stesso codice antimafia rinforza anche, come è giusto che sia, la tutela dei diritti dei soggetti destinatari dei provvedimenti».
Ma a suo giudizio le leggi vigenti sono adeguate a combattere la corruzione? E se non lo sono, quali misure andrebbero applicate?
«Sono stati fatti passi in avanti enormi, dal punto di vista legislativo, e si sono messe in campo, a volte senza una logica chiarissima, tante novità positive che hanno bisogno di tempo per essere digerite. Mi riferisco, per esempio, alle tante novità che hanno riguardato la prevenzione della corruzione e che vedono l’Anac protagonista. C’è bisogno di tempo perché queste norme siano effettivamente applicate e per vederne i risultati. Se potessi dare un consiglio, direi di intervenire il meno possibile ancora su questa materia, soprattutto nel settore penale. Sarebbe molto meglio, per rendere più efficace la lotta alla corruzione, una buona legge sulle lobbies, e una legge che regolasse l’attività delle fondazioni politiche e soprattutto la trasparenza dei finanziamenti ricevuti e delle spese sostenute».
La riforma del Codice antimafia segue quella del processo penale, che ha aumentato la prescrizione, ancorandola all’aumento dei massimi delle pene. Con questa riforma la prescrizione arriva per alcuni reati, come la corruzione, a vent’anni. Una parte consistente della vita di una persona. Lei immagini quale effetto possa avere un processo che inizia quando l’imputato ha 40 anni, nel pieno di una carriera, e finisce quando ne ha 60, magari con un’assoluzione. La legge sospende la prescrizione per un anno e mezzo tra primo grado e Appello, e tra Appello e Cassazione, ma soprattutto la áncora al massimo edittale della pena. È un abbraccio mortale. Si aumentano le pene per aumentare la prescrizione. È così che si pensa di ridurre il tempo dei processi? In Europa la prescrizione media è di 8,5 anni per i reati più gravi e di 5 per i più lievi. Come spiega quest’anomalia giudiziaria tutta italiana?
«Penso e ho tante volte ribadito che un processo può essere efficace se è ragionevolmente breve, e che le condanne che arrivano a distanza di troppo tempo finiscono per essere poco utili, perché nel lasso di tempo intercorso hanno consentito ai colpevoli di beneficiare della sacrosanta presunzione di non colpevolezza e quindi di essere giustamente parificati agli innocenti. E al tempo stesso hanno costretto gli innocenti a subire un lunghissimo processo, che di per sé è peggio di una condanna. La riforma della prescrizione adottata mi sembra però equilibrata. Non dimentichiamoci che c’è una parte anche consistente del Paese che vorrebbe l’imprescrittibilità dopo il rinvio a giudizio, mentre con la riforma non si mette in discussione uno strumento che risponde a innegabili esigenze di civiltà. E poi questa riforma scommette anche sugli effetti positivi indiretti: dovrebbe scoraggiare le tecniche dilatorie e forse favorire anche un impiego maggiore dei riti speciali. Prima di essere così pessimisti, attendiamo di vederne gli effetti».
Tuttavia la maggior parte delle prescrizioni sono concentrate su 4-5 tribunali, tra cui quello di Napoli, che assorbe oltre il 20 per cento dei casi. Non sarebbe stato meglio intervenire su processi di efficientamento dell’organizzazione giudiziaria, invece di comprimere le libertà degli imputati, facendo pagare loro i ritardi del sistema?
«Questa sua affermazione la condivido al cento per cento: l’indagine del ministero della Giustizia ha dimostrato come una buona organizzazione degli uffici giudiziari sia in grado di ridurre al minimo i rischi delle prescrizioni. Su questo aspetto bisognerà lavorare moltissimo, anche responsabilizzando i dirigenti degli uffici. Le misure organizzative, però, hanno tempi lunghi per l’attuazione. E comunque, quali che siano i termini previsti per la prescrizione di un reato, uno Stato efficiente deve pretendere i processi in tempi ragionevoli e far sì che l’Italia si avvicini agli standard europei».
E che dire della delega sulle intercettazioni? Il ministro Orlando ha detto, rassicurando una parte dell’opinione pubblica giustizialista e alcuni giornali che cavalcano questo pensiero, che non si tratta di ridurre l’acquisizione - anzi la legge delega si propone di semplificarla -, ma solo quello di limitare la loro pubblicazione. Lei condivide questa impostazione?
«Io credo che non si possa fare a meno delle intercettazioni come strumento investigativo: per molti reati (e fra essi la corruzione) sono indispensabili. Rinunciare ad esse significherebbe non consentire la scoperta di fatti gravissimi. Bisogna, però, ammetterle nei soli casi in cui sono indispensabili, e bisogna evitare che divengano pubblici quegli ascolti penalmente irrilevanti che riguardano la privacy dei soggetti, soprattutto se estranei alle indagini. Occorre ricordare sempre che la funzione unica dell’intercettazione è la scoperta dei reati e non certo la loro pubblicazione. Troppo spesso in concreto si dimentica questa banale considerazione».
Tuttavia converrà che il criterio di pertinenza, o rilevanza, è interpretato in maniera soggettiva dai pm e anche dai gip: i paletti dell’udienza filtro, prevista dalla nuova legge delega, rischiano di essere aggirati da una prassi interpretativa di segno opposto. L’effetto è duplice: una cultura dell’investigazione fondata sul sospetto e indagini costruite sull’assemblaggio di pagine e pagine di intercettazioni che non hanno nessun riscontro probatorio. L’inchiesta Consip è emblematica: una Procura incompetente intercetta una persona indagata da un’altra Procura per un reato per cui non è prevista l’intercettazione. È il caso di Tiziano Renzi. Allora o i magistrati napoletani sono censurabili, oppure fino a prova contraria hanno agito nella legalità, perché oggi è possibile per il pm compiere atti che somigliano a un abuso. Che cosa ne pensa?
«Il rischio astratto che lei paventa è reale, ma la scelta dell’udienza filtro rappresenta l’unico modo per provare a sterilizzarlo. A quell’udienza parteciperanno i difensori delle parti, e ad essi sarà attribuito un ruolo fondamentale nella selezione delle intercettazioni utili alle indagini. Laicamente aggiungo: attendiamo le norme per capire se esse potranno essere o meno efficaci. Quanto al caso Consip, non posso né voglio esprimermi, quantomeno perché non ho gli elementi effettivi per farlo. Credo, però, che le tante indagini avviate, sia penali che disciplinari, consentiranno alla fine di farsi un’idea concreta di quello che è avvenuto e di verificare se effettivamente sono state compiute forzature o persino illeciti. Questa vicenda, a prescindere da tutte le altre considerazioni, credo che farà scuola per l’importanza che ha assunto e sarà un precedente per orientare futuri comportamenti di tutti gli attori processuali».
In ogni caso non le pare che sul terreno della giustizia la legislatura che sta per chiudersi sia andata declinando verso un finto riformismo? A tre anni dalla nascita di un governo che aveva messo la riforma della giustizia tra i suoi punti programmatici - lo stesso Napolitano subordinò il suo bis al Quirinale a questo impegno - si partorisce un topolino, fatto di norme penali e norme penali-processuali che rispondono agli umori forcaioli della piazza, e nessuna terapia contro i veri mali della giustizia: la lunghezza dei processi, il pericoloso slittamento del diritto penale dal giudicato alle indagini preliminari e dal reato al reo, la patologica mediatizzazione, una cultura dell’investigazione ancorata più al sospetto che alla ricerca delle prove, le incompiute o del tutto denegate garanzie della difesa. Condivide quest’analisi?
«Non spetta a me dare giudizi politici, e credo sia anche difficile darli a caldo.
Dalla mia triplice prospettiva di cittadino, magistrato e presidente dell’Autorità anticorruzione, vedo tante novità positive: interventi significativi nel settore penale (la riforma del falso in bilancio, dell’autoriciclaggio, del voto di scambio politico mafioso, dei reati ambientali), nel settore della prevenzione anticorruzione (il rafforzamento dei poteri dell’Autorità che ho l’onore di presiedere), ma anche nella giustizia civile e nella situazione carceraria. Concordo con lei che si poteva fare altro, anche dal punto di vista ordinamentale, e che molte riforme potevano e dovevano essere fatte meglio, ma il giudizio complessivo andrà dato anche con riferimento alla concreta applicazione. Quanto all’umore giustizialista che ci sarebbe nel Paese, in tante occasioni ho ricordato quanto questo umore sia molto mutevole, come dimostrato dall’esperienza di Tangentopoli, e quanto sia poco utile, proprio nell’interesse della lotta alla corruzione, assecondarlo. Ciò detto, però, bisognerebbe anche capire perché una parte del Paese legge alcune posizioni della politica come un’autodifesa della “casta”. Questo aspetto può essere superato solo dalle scelte di una politica che dimostri di lavorare davvero per l’interesse comune di tutti».
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