La politica (e il Paese) al tempo di «volessimo»

di Adolfo Scotto di Luzio
Sabato 13 Gennaio 2018, 08:23 - Ultimo agg. 09:23
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Pare che gli italiani si compiacciano degli strafalcioni linguistici dei loro politici. Sono virali, come si dice, i video del ministro Fedeli e del candidato cinquestelle alla Presidenza del Consiglio Luigi Di Maio. La prima, intervenendo agli stati generali dell'alternanza scuola-lavoro, alla vigilia di Natale, si è lasciata scappare un «più migliori» che ha mandato in estasi tutti gli arrabbiati della scuola. L'altro, durante un'intervista, ha dato una prova ulteriore della sua poca dimestichezza con l'uso del congiuntivo. Per la verità, il «volessimo» del povero Di Maio è solo uno degli aspetti rilevanti della sua performance linguistica. Che dire, ad esempio, di quello che viene subito dopo: «Il tema del referendum che io adesso la definisco una estrema ratio da accantonare in questo momento»?

Colpisce la carognesca soddisfazione con la quale la nuova opinione pubblica, quella del doppio schermo, vale a dire del dominio congiunto del video del televisore e di quello del telefonino, come scrive sul sito della Treccani il linguista Michele Cortellazzo, colpisce, dicevo, la soddisfazione con la quale il potenziale elettore italiano gioisce degli inciampi dei propri rappresentanti parlamentari.

Basta entrare in un'aula universitaria per capire quanto sia immotivata una simile amara soddisfazione. Una delle forme meno studiate di esclusione scolastica a livello universitario è proprio quella linguistica. Pur fisicamente presenti in aula, infatti, molti studenti sono di fatto nella condizione di non poter partecipare alla lezione perché, semplicemente, non capiscono il linguaggio che usa il professore.

Non solo non conoscono molte delle parole che appartengono ad un registro, non dico tecnico, ma semplicemente alto, ma non sentono quasi mai il pungolo della curiosità di andarle a cercare su di un vocabolario della lingua italiana. Le parole, diceva profeticamente Nanni Moretti sono importanti. Ma in un’espressione corretta del proprio pensiero non contano solo le parole. Conta la conoscenza dei temi affrontati, conta la capacità ideativa, l’ organizzazione testuale. Conta l’argomentazione. Quasi più nessuno argomenta. In compenso tutti narrano. Gli studenti raramente sono capaci di dare una definizione formale di un problema ma come tanti bambini raccontano una storia. La pressione del cosiddetto storytelling è così forte da alterare la struttura delle stesse tesi di laurea, genere oramai in declino della comunicazione accademica, sempre più frequentemente sostituito da resoconti della propria esperienza con accentuazione narcisistica dei suoi tratti emotivi. E stiamo parlando di persone ad elevato livello di scolarizzazione formale. Gli effetti di «mitologizzazione» della realtà sono gravi, evidenti, ma anche poco compresi. Sarà forse questa la causa dello straordinario successo delle serie televisive e del loro ampio ricorso al codice del mito? Allora, verrebbe proprio da dire, a tutti quelli che mettono in rete gli errori dei politici, da che pulpito parlate? Biagio de Giovanni ha scritto ieri su questo giornale che la politica ha bisogno di egemonia. Antonio Gramsci annotava, dal canto suo, nel formidabile quaderno 29 dedicato allo studio della grammatica, che ogni volta che affiora la questione della lingua significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale. Insomma, è in gioco la riorganizzazione dell’egemonia culturale.

È evidente allora che nel collasso delle strutture linguistiche del discorso politico italiano si è prodotta in questi anni una più vasta disarticolazione della capacità della politica di mettere in forma la società nazionale. Questo non significa tuttavia che una forma sia del tutto assente. Significa, piuttosto, che la forma non si produce più nei luoghi dove ci attenderemmo di vederla emergere. Il linguaggio dei nuovi italiani è gergale e testualmente rapinoso (oggi leggere significa essenzialmente “scrollare” un testo sul video di uno strumento elettronico) perché è essenzialmente plasmato dalla tecnologia e dall’inglese aziendale. E siccome con le parole e con i gesti si mutuano anche le logiche soggiacenti, tecnologia e impresa diventano due fonti effettive di direzione nella società.

La politica è al tempo stesso complice e vittima di questa situazione. La novità non sta tanto nella lingua pidocchiosa che parlano gli italiani, piatta, ripetitiva, piena di errori ortografici e sintattici, ma nel fatto che questo impoverimento si produca in presenza di una infrastruttura scolastica fitta e di portata universalistica. Detto in altri termini, gli italiani parlano male in presenza di una elevatissima scolarizzazione. Come, ripeto, non è mai accaduto nella storia collettiva del nostro paese: i nonni che faticavano ad emergere dalle pastoie dialettali non avevano a portata di mano le scuole che frequentano in maniera così estesa i loro nipoti semianalfabeti.

Come è possibile? L’accesso all’alfabeto in Italia, prim’ancora che un’esigenza spontaneamente avvertita dalla società, è stato un progetto dell’élite politica. Questo è stato vero nell’Italia liberale, con il Fascismo e ancora con la Repubblica, almeno fino agli anni Sessanta. La scuola è servita nientemeno che a costruire la nazione. Oggi questo progetto è stato abbandonato. Non che la nazione non vada ancora costruita e diretta, solo che la politica italiana ritiene che questo compito possa essere assolto dall’iniziativa molecolare dei privati. Insomma, è affare dell’economia. L’ Italia come idea generale della politica semplicemente non esiste più. Il disprezzo di cui i politici italiani sono fatti segno è da questo punto di vista causa e conseguenza di una simile dismissione. 

E così, tra un post su Facebook e una sentenza su Twitter, facciamo finta di non capire che il congiuntivo di Di Maio di nessun altro parla che di noi. «De te fabula narratur», scriveva il vecchio Marx nella prefazione alla prima edizione del Capitale. Ma lui leggeva Orazio direttamente in latino.
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