La nuova stagione dei partiti personali

di ​Mauro Calise
Lunedì 29 Gennaio 2018, 11:11
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Ultimo all'appuntamento con le leggi inesorabili di questa fase politica, anche Renzi si è fatto à la Razzi una cosa tutta sua. Autoavverando come ha scritto lapidario Massimo Franco sul Corriere «la profezia del partito personale». Non aveva molte alternative. In passato, quando era in auge, aveva tentato un'altra strada, provando a fare del Pd un partito plurale e al tempo stesso con una forte leadership. Il modello che era riuscito a Blair e con forme diverse alla Merkel. Ma aveva sottovalutato la scorza durissima e vendicativa - degli oligarchi della ditta. Che, appena è cambiato il vento, lo hanno messo con le spalle al muro, utilizzando contro il segretario la loro forza parlamentare. 

Renzi ha imparato la lezione. E che siano pochi o molti i prossimi deputati e senatori non lo accoltelleranno alle spalle. La stessa soluzione adoperata da Berlusconi, Salvini e Di Maio. 

Agli occhi dell'opinione pubblica, questa scelta suona sgradevole. Ma non è molto più gradita, a dire il vero, l'alternativa che lascerebbe gli eletti liberi di trasmigrare da un gruppo parlamentare all'altro, che è quello cui abbiamo assistito a iosa negli ultimi anni. Tra leaderismo e trasformismo, sul piano valoriale, c'è poco da rallegrarsi. Su quello empirico, però, c'è una differenza importante, che peserà nella legislatura che si apre. Il tavolo delle alleanze possibili sarà più trasparente che in passato. I numeri che ciascun capopartito calerà nel piatto saranno più attendibili e soprattutto affidabili. Il che, visto come siamo combinati, è comunque un dato confortante. All'osso, le candidature blindate sono un primo elemento di certezza in un quadro che, per tanti aspetti, si prospetta estremamente ballerino.

L'altro fattore che dovrebbe aggiungere una dose di stabilità è che il 5 marzo non avremo soltanto i risultati della sfida appena chiusa. Sapremo anche, con buona approssimazione, quanto il verdetto potrebbe cambiare qualora a breve si ritornasse alle urne. Cioè, quanti e quali sarebbero i collegi a rischio di conferma e quelli concretamente contendibili. Prendiamo il caso del centrodestra. I sondaggi pronosticano una crescita, che non arriverà alla maggioranza ma che potrebbe avvicinarcisi. E se in un numero congruo di collegi il sorpasso apparisse a portata di voto, sarebbe molto forte la spinta a sciogliere le Camere e provare a sfondare al turno successivo.

Anche per questo, appare poco probabile che si cambi la normativa vigente, così faticosamente concordata. Una nuova legge elettorale riaprirebbe i giochi al buio, e moltiplicherebbe le incognite dei futuri equilibri tra i partiti. Inoltre, rimescolando circoscrizioni e collegi, renderebbe ancora più opinabile la rielezione di deputati e senatori che quella legge dovrebbero votare. Un atto contronatura che i benpensanti chiederanno a gran voce, ma che i diretti interessati si guarderanno dall'autoinfliggersi.

Dunque, i partiti personali che dominano oggi la scena dovrebbero riuscire a mettere un po' d'ordine in parlamento. Non è detto, però, che questo sia garanzia di stabilità. Anzi. Per essere legato alle sorti del proprio leader, questo tipo di partito appare di durata comunque incerta. Molto dipende dalla salute fisica e politica del capo. Renzi e Salvini appaiono oggi abbastanza saldamente in sella. Il Cavaliere ha fatto il miracolo di risorgere per la settima o ottava volta dalle sue ceneri. Ma il problema della successione ha già dimezzato i consensi di quando Berlusconi era più giovane, e si riproporrà con insistenza. Ancor più se dovesse decidere di rompere platealmente l'alleanza con la Lega e formare un governissimo con il Pd. 

Ma le incognite maggiori riguardano il futuro dei cinquestelle. L'uscita di scena di Grillo, alla vigilia delle elezioni, segnala che c'è stato uno scontro violento nel passaggio di consegne al vertice. Il controllo ipercentralizzato di candidature e dibattito interno va ben oltre le forme dirigistiche che abbiamo conosciuto finora. È una cybercrazia che mette insieme l'ideologia partecipativa della rete con la realtà di una nomenclatura opaca di stampo orwelliano. Può reggere a lungo tutto ciò? Di Maio ha dimostrato, finora, grandi doti di navigatore. Ma ha avuto sempre il vento in poppa. Cosa succederà se i risultati dovessero essere inferiori alle aspettative? O se una intesa di governo dovesse lasciare i cinquestelle per altri cinque anni a digiuno di potere e credibilità? Quello di Grillo è stato a tutti gli effetti un superpartito personale. Di Maio sta provando a intestarselo senza perdere voti e mutuando lo stesso ferreo controllo di cui ha goduto il suo fondatore. Sarebbe un capolavoro politico. Fino ad oggi, nessuno ci è riuscito.
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