Il premier cambia pelle al Pd: basta col recinto della sinistra

Il premier cambia pelle al Pd: basta col recinto della sinistra
di Alberto Gentili
Domenica 19 Ottobre 2014, 23:03 - Ultimo agg. 20 Ottobre, 00:05
3 Minuti di Lettura
Non si spingerà fino a chiamare Dc il Pd. E starà ben attento a non ricordare che qualcosa del genere l’ha tentata e (in parte) realizzata il suo amico e fan Silvio Berlusconi, come il suo predecessore Walter Veltroni. Ma oggi Matteo Renzi, senza clamore e senza enfasi, in una riunione della Direzione convocata soltanto per far contenta la minoranza interna, ratificherà la nascita del “Partito del Paese”. Qualcosa che somiglia molto alla Democrazia cristiana, appunto. Tant’è, che il primo a parlare di “Partito del Paese” (e non per elogiarlo) fu Beniamino Andreatta.



A Bersani e Cuperlo, a Massimo D’Alema e Fassina che hanno protestato quando s’è scoperto che gli iscritti al Pd erano crollati da 400mila a 100mila («ma per la verità sono 230mila»), Renzi risponderà dicendo più o meno quello che diceva Veltroni. Usando però non il tempo futuro, ma quello presente: «Abbiamo realizzato un partito a vocazione maggioritaria, il 40,8% dei voti conquistato alle elezioni europee è lì a confermarlo». Un progetto e un’idea molto simile a quella di Berlusconi che però, proprio ieri, è dovuto ancora ricorrere al futuro: «Il mio sogno è vincere da solo, senza alleati».



Il “Partito del Paese”, per essere tale, secondo Renzi deve essere «interclassista» e «centrale» nello schieramento politico. Deve essere nazional popolare. Capace - come ha fatto ieri nel salotto tv di Barbara D’Urso lanciando gli 80 euro per le neo-mamme... - di «parlare a tutti, senza steccati ideologici» e di adottare «politiche utili al Paese e non alla propria parte politica». Insomma, il Pd di Renzi è un partito che «esce dal recinto tradizionale della sinistra», per diventare «una forza politica in cui gran parte del Paese si riconosce».



LA METAMORFOSI

Renzi farà seguire queste considerazioni dal suo più classico...«già fatto». La metamorfosi è già avvenuta. E’ nei fatti: i provvedimenti varati dal governo a volte piacciono a destra, altre (meno spesso) a sinistra; gli elettori sono targati Pd, ma anche Forza Italia come dimostrano i flussi elettorali del voto di maggio. La legge di stabilità appena varata, ad esempio, fa impazzire di gioia la Confindustria e infuriare la Cgil.

Tutto ciò cambia identità e Dna del Pd, modifica valori e basi di riferimento. E per dirla con Giorgio Tonini, cui Renzi ha affidato l’incarico di preparare la Direzione di oggi, «ciò ha conseguenze evidenti anche su come si deve strutturare il partito. Non può più andar bene una classe dirigente chiusa e autoreferenziale». In poche parole renziane: «Basta con la Ditta chiusa e i soliti noti».



Alla sinistra interna che denuncia un partito in crisi, il premier e segretario oggi ribatterà dicendo che «il modello Pd è vincente». Che il suo Pd «è la storia di un successo». Perché «è l’unico partito in salute in Italia. Anzi, forse l’unico partito...». E perché è «anche l’unico a vincere in Europa», come dimostra la crisi del Ps francese, della Spd tedesca, del Labour inglese e come prova la vittoria elettorale di maggio, «che fa del Pd il partito di governo con più voti».



Guai invece a parlare di “Partito della nazione”: «Quel nome non ci piace», dicono al Nazareno, «ricorda il partito nazional fascista di Mussolini».

Non mancano i problemi. Renzi dirà che bisogna trovare il modo per non rendere episodico il contributo dei tre milioni di cittadini che costituiscono il “popolo delle primarie”. «Non possono sparire tra un voto e l’altro», sostiene Tonini. E farà sapere, il premier, che i soldi sono pochi e occorre sensibilizzare «la gente sul contributo del 2 per mille». Come bisogna vigilare sulla «qualità» degli iscritti («non basta la quantità!»), garantendo trasparenza nelle procedure di tesseramento.