Perché ora
ritorna lo spread

di Serena Sileoni
Martedì 22 Maggio 2018, 08:27 - Ultimo agg. 09:30
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Se il buongiorno si vede dal mattino, si direbbe che il governo del professor Giuseppe Conte, indicato da Di Maio e Salvini, si è svegliato con un tempo variabile. Un Presidente del Consiglio indicato dal Movimento 5 Stelle ma ad esso esterno, e con i migliori requisiti del buon tecnico, è una garanzia per tutti. Gli elettori del M5S potrebbero avere qualcosa di cui lamentarsi, dopo anni di propaganda contro i tecnici e i loro governi, e altrettanti di promesse di democrazia diretta. Non deve essere il migliore dei risvegli, per quegli elettori: l’alba di un ritorno della democrazia mediata, con esiti persino più vigorosi, in termini di mediazione, rispetto alla cosiddetta Prima Repubblica. È la prima volta, infatti, che un Presidente del Consiglio di un governo post- elezioni non proviene da nessun partito. Ma questa, al massimo, è una preoccupazione interna al movimento. 

Per tutti gli altri italiani, il nome del professor Giuseppe Conte, per quel senso di moderazione e mediazione, oltre che di competenza, che trapela dal suo profilo, rappresenta un lieto fine alla richiesta di Lega e M5S di tempi supplementari al Presidente Mattarella. La sua nomina, se confermata, può e deve essere vissuta come una sorta di tregua politica e di accreditamento di un movimento le cui critiche si sono sempre (agevolmente) concentrate su incompetenza e superficialità di analisi e proposte.

La garanzia non è solo per la generalità degli italiani, ma anche per gli attori - pubblici e privati, mercati e istituzioni - stranieri.
Qualche nuvola proveniente dall’estero in questi giorni si è condensata sul contratto (rectius: programma) di governo. Lo spread è salito, Fitch ha lanciato l’allarme che l’accordo Lega-M5S avrebbe aumentato il rischio-Paese, l’Economist ha appena scritto che il programma di governo è finanziato da «wishful thinking» e che l’Italia non può permettersi un governo che faccia persino peggio del nulla, agendo con «incoerente radicalismo». Da Bruxelles, si è sentito qualche colpo di tosse, mentre le due forze politiche chiudevano il programma. È probabile che non si tratti solo di una reazione al sovranismo e nazionalismo che le accomuna. Lo spread in aumento e i segnali negativi della Borsa di Milano sono avvenuti solo negli ultimi giorni, non negli ultimi due mesi. Anzi, attori pubblici e privati stranieri hanno mostrato una buona dose di pazienza, fino a pochi giorni fa. Un po’ per un senso di normale prudenza e attendismo, un po’ perché le forme di governo parlamentari europee in questi anni hanno dimostrato di avere bisogno di più tempo rispetto al passato per dare vita a un governo. L’Italia si è aggiunta con le sue peculiarità, in primo luogo un esito elettorale che consegna la vittoria a una maggioranza politica nazionalista, ma senza strappi nelle prassi istituzionali rispetto alle democrazie omologhe.

Le reazioni estere e internazionali sono state invece concomitanti alla diffusione del «contratto» di governo. Un programma che, come tale, può permettersi di porsi qualsiasi obiettivo senza dire come raggiungerlo, ma del quale non possono non balzare agli occhi due elementi collegati fra loro. Un forte statalismo e interventismo e, insieme, un forte aumento della spesa pubblica.

I sovranisti più puri diranno che anche questo non riguarda né i mercati né le istituzioni fuori dall’Italia, ma la realtà delle cose è ovviamente un’altra. A pagare il prezzo di un atteggiamento oltranzista, come è a ritmo alternato quello contro l’Europa, l’euro e la globalizzazione di entrambe le forze politiche, sarebbe l’Italia, per prima.

Il programma è molto ambiguo, su questi punti: parla di ridiscutere i trattati europei, cosa che presuppone un interlocutore, e di un «limitato» ricorso al deficit. I colpi di tosse che si sono sentiti lanciano solo un segnale di attenzione

Il governo, se incaricato, avrà le occasioni per diradare le nuvole o per condensarle.
Il fatto che il responsabile dell’indirizzo della politica generale del governo sia un «tecnico» (checché voglia dirne Di Maio) è, da questo punto di vista, una rassicurazione rispetto alle più esasperate posizioni. E soprattutto è un paravento per Di Maio e Salvini: se i programmi elettorali non saranno pienamente realizzati, potranno dire ai loro elettori che non è colpa loro, ma dei soliti tecnici e della solita Europa. Per tutti gli altri elettori, meglio così.
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