Perché quota 100 fa male al lavoro e al Mezzogiorno

di Enrico Del Colle
Mercoledì 6 Febbraio 2019, 08:00
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Con il comunicato di qualche giorno fa l'Istat ha certificato come l'Italia sia in recessione tecnica, ovvero che per due trimestri consecutivi le variazioni del Pil hanno avuto segno negativo (-0,1% nel terzo e -0,2% nel quarto del 2018). Del resto anticipazioni di tutto rispetto erano già pervenute dalla Banca d'Italia, dall'Ocse e dal Fmi che, con «sfumature numeriche» leggermente diverse, avevano indicato la medesima direzione.

Poi ci sono altri significativi indicatori che sostengono queste posizioni: l'andamento del debito pubblico non dice niente di buono, le banche sono in sofferenza, lo spread è a livelli di guardia, la produzione industriale stenta soprattutto nei settori chiave del Paese (Auto e Manifatture, solo per fare degli esempi), gli investimenti faticano a ripartire, l'export rallenta e, naturalmente, le previsioni non indicano cambi di direzione (siamo il Paese con previsioni di crescita del Pil tra le più basse d'Europa, se non addirittura la più bassa). Il governo prova a tranquillizzare e cerca il rilancio economico provando a ripartire dal piano infrastrutturale, cioè dagli investimenti pubblici a cui aggiunge la volontà di accelerare sulle riforme degli appalti e sulle semplificazioni.

Occorre, però, procedere con sollecitudine e poi basterà? La gente comune si deve preoccupare? I segnali di una certa inquietudine si cominciano ad avvertire: prima di tutto continua ad essere ben presente la consapevolezza, soprattutto nei giovani, di quanto sia difficile trovare un lavoro e poi è iniziata una corsa tumultuosa verso «quota 100». Iniziando dai recenti dati sull'occupazione, essi sembrano fornire indizi positivi (gli occupati sono aumentati di 23mila unità nello scorso mese di dicembre rispetto a novembre e il tasso di occupazione si è attestato al 58,8%, con +0,1%). E allora? In realtà l'Istat ci dice sostanzialmente due cose, ma poco rassicuranti: la debole ripresa occupazionale è dovuta all'aumento dei contratti a termine e delle partite Iva, mentre si riducono i contratti stabili (nel complesso soffre la fascia di età 25-34 anni, meno 31mila) e riprende a crescere la disoccupazione giovanile (ora al 31,9%, più 9mila). Tenendo insieme queste due evidenze si può affermare che i giovani sono ancora una volta «trascurati» e questa non è certo una buona notizia per il futuro, soprattutto per il Mezzogiorno. Sul fronte «quota 100» strettamente connessa con il fattore lavoro - la situazione è ancora più complessa e difficile da decifrare: in pochi giorni sono pervenute all'Inps circa 15mila domande (con prevalenza dal Mezzogiorno) e anche immaginando che non tutte saranno accolte, se dovessero continuare nei prossimi mesi più o meno con questi ritmi, si avrebbero pesanti conseguenze: da un lato si potrebbe andare oltre la cifra programmata dal governo per questo provvedimento (3,8 miliardi per il 2019), con implicazioni tutte da definire e dall'altro calerebbe il livello dell'occupazione. Non deve essere dimenticato, infatti, che l'eventuale recupero dei posti di lavoro lasciati liberi dai beneficiari di «quota 100» non solo non è automatico, ma ha tempi di realizzazione più lenti, dato che sono ancorati alla crescita economica e alle riorganizzazioni aziendali, così come sono diversi tra le aree del Paese e tra i settori di attività economica. Ma a cosa è dovuto questo inaspettato, almeno in parte, «esodo»? Innanzitutto all'incertezza della situazione attuale unita al timore di trovarsi di fronte tra qualche anno a modifiche normative più restrittive sul pensionamento, come già accaduto in passato; poi c'è la possibilità sia di incassare qualche anno prima tutto il tfr (o in parte, il tfs per gli statali) - da utilizzare magari per un aiuto ai propri figli e nipoti - sia di continuare a lavorare, seppur con vincoli normativi da rispettare (non oltre 5mila euro annui nel periodo di anticipazione) e, infine, c'è la convinzione di migliorare la qualità della vita. Ecco cosa spinge le persone ad anticipare il pensionamento in un Paese dove, però, l'età alla pensione è tra le più basse d'Europa; detto ciò, non è cosa secondaria ribadire, comunque, che l'uscita a 62 anni comporta una riduzione dell'assegno pensionistico tra il 3 e il 5% per ogni anno anticipato rispetto alla pensione di vecchiaia (almeno per la parte contributiva riguardante, oggi, più del 60% della pensione), a cui si deve sommare una bassa rivalutazione delle retribuzioni per la restante parte retributiva dell'assegno, in quanto collegata alle recenti e poco incoraggianti variazioni del Pil; resta inoltre da verificare, da parte dell'interessato, che le retribuzioni degli ultimi 5/10 anni siano le «migliori», visto che il calcolo della quota retributiva si farà proprio su quest'ultime. Chissà se «il pensionando quota 100» è bene informato di tutto ciò, tenendo comunque conto che, conservare una disponibilità economica tra il 15 e il 20% in più per il resto della vita, aiuta le condizioni della stessa sicuramente a non peggiorare, soprattutto quando si invecchia!
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