Precari di successo, se non basta
il merito per restare in Italia

Precari di successo, se non basta il merito per restare in Italia
di Francesco Pacifico
Martedì 25 Settembre 2018, 12:34 - Ultimo agg. 16:15
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Daniela Gaglio, quando era al Mit di Boston e le proponevano di trasferirsi in America, aveva soltanto un sogno. «Quello di portare in Italia, anzi negli ospedali italiani, la stessa piattaforma ad alta risoluzione per tipizzare, riconoscere, alcune neoplasie tumorali». Ci ha messo sei anni, ma da settembre la sperimentazione è partita con il centro di Ibim di Palermo e l'ospedale Giglio di Cefalù. «Ho discusso i primi casi con i medici siciliani all'inizio del mese. Non potete capire l'emozione e anche la soddisfazione». Daniela, 41 anni e da 15 in attesa di un contratto a tempo indeterminato, è una delle tante precarie della ricerca che ha deciso di restare in Italia. Nonostante il baronaggio che blocca l'assegnazione delle cattedre o i risicati fondi per la ricerca. Precaria come il 40enne Benedetto Longo, che dopo anni passati ad Harvard, è tra i medici dell'equipe di microchirurgia che a Roma ha effettuato il primo trapianto di pelle in Italia.

Anche senza contratto a tempo indeterminato, Daniela Gaglio è team leader, guida uno staff di 7 persone all'Ibfm-Cnr di Segrate (Milano), per 1.800 euro al mese. Biologa nativa di Agrigento e laureata a Palermo, lo scorso anno è divenuta famosa in tutta la comunità scientifica per uno studio che dimostrato come nei carcinoma polmonari il metabolismo «possa diventare un indicatore per scoprire l'evoluzione della malattia. Abbiamo scoperto che fermando due nutrienti, si può anche bloccare la crescita tumorale». Anche ora che collabora con l'università di San Diego o con quella di Amsterdam, non ha rimpianti per essere tornata in Italia. «Nel 2013 - racconta - ero a Lovanio, dove avevo vinto un post dottorato fellowship Marie Curie. Ma una volta lì mi sono domandata, ma se se ne va anche chi come me ha la possibilità di restare, allora chi lo salva questo Paese?».

 
I DATI
In Italia i ricercatori precari sono 151mila. Di questi, ogni anno, 13mila decidono di andare all'estero: stipendi doppi (circa 4mila euro), maggiori risorse e strumenti per fare il proprio lavoro, tempi di carriera più rapidi. Anche perché nel Belpaese è difficile venire stabilizzati: la Flc-Cgil ha calcolato che nell'ultimo decennio l'università ne ha assorbiti con contratti a tempo indeterminato poco più di 10mila. Incurante del fatto che spesso questi studiosi portano avanti progetti molto ambiziosi. Come l'agronomo Giorgio Vacchiano, 38enne torinese e contrattista all'università di Milano, indicato dall'autorevole Nature tra gli 11 migliori ricercatori emergenti del mondo, per i suoi studi sulle foreste. Di offerte dall'estero ne ha rifiutate tante, ma ora spera che il suo premio cambi le cose nel Belpaese. «La ricerca - ha raccontato - richiede tempo, anche solo per maturare un'idea. Da questo meccanismo l'Italia ci perde. Forma dei ragazzi in maniera ottima per poi vederli andare via».
LE TESTIMONIANZA
«Fuori ha più opportunità, è vero. Ma per quanto si possa pensare il contrario, se una persona vale, si può emergere anche nell'università italiana». Non ha rimorsi neppure Andrea Tarallo, 37enne ingegnere napoletano. «Certo, all'estero guadagnerei il doppio e di proposte ne ho avute. Ma qui, sostanzialmente ho tutte le mie cose: la famiglia, le mie abitudini, soprattutto mi trovo bene con il mio gruppo di ricerca». Lui si occupa di fissione nucleare dopo essersi laureato alla Federico II. Eppoi dopo tante esperienze in Francia e in Germania, ecco un contratto a tempo determinato nella stessa sede di piazzale Tecchio, dove tiene corsi di disegno tecnico industriale. «Qui fare ricerca non è facile, soprattutto in ottica di prospettiva: la carriera è lenta. Quando giro in Europa mi rendo conto che i miei colleghi, alla mia età, già gestiscono un team di lavoro. Io invece, qui, faccio tutto da solo. Eppure noi in Italia ci difendiamo bene con le competenze. Al Cnr di Frascati stanno costruendo un innovativo reattore a fusione nucleare, il DTT». Lo scorso anno, dopo un articolo sull'autorevole rivista Atmosphere, il 47enne Marco Morabito ha conquistato le pagine di tutti i giornali europei per uno studio che ha fatto molto parlare: è riuscito a dimostrare, monitorando l'andamento delle ondate di calore nelle 28 capitali della Ue, quanto la mano dell'uomo ha inciso nell'aumento delle temperature nel Sud dell'Europa e nei Paesi dell'ex cortina di ferro la mano. A coordinare lo studio questo 47enne di origini napoletane ma da 20 anni a Firenze, che con un contratto a tempo determinato lavora all'istituto di biometeorologia del Cnr Ibimet del centro toscano. E di precariato ne ha fatto tanto, come dimostrano i quattro contratti all'università fiorentina. «Le occasioni per andare all'estero non mancano. Ma ho scelto di restare e di affrontare tutte le problematiche. E sono molte: per esempio sono io a dover trovare i fondi per le mie ricerche, andandoli a cercare tramite i miei contatti nella comunità scientifica e andando a spulciarmi tutti i bandi europei pubblicati». Ma il suo bilancio è positivo: le opportunità che ho avuto sono notevoli, ho fatto esperienze importunanti con grande libera di applicazione. Ora per esempio, con dei colleghi croati, stiamo studiando quanto il caldo incide sulle performance dei lavoratori. Forse se mi fossi laureato prima e se non fossi già emigrato da Napoli a Firenze, sarei andato fuori. Però sono rimasto in Italia soprattutto perché ho seguito un mio percorso di ricerca con persone delle quali mi fidavo. Peccato solo che da noi non si riconosca il merito, non si premi chi produce di più».
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