Da attento analista del Diritto, Sabino Cassese avverte che «un vero e proprio giudizio potremo darlo soltanto quando leggeremo il testo». Intanto, sulla scorta di quanto emerso dalla non facile seduta del Consiglio dei ministri che ha affrontato la riforma della giustizia penale, il giudice emerito della Corte costituzionale sente di poter dire che «per ora, mi pare un buon compromesso se verrà seguito dagli altri capitoli che riguardano la riforma della giustizia».
Cassese, un consiglio dei ministri tormentato ha trovato in extremis l'intesa sulla riforma della giustizia penale, prevedendo l'inserimento di reati contro la Pubblica amministrazione, come la corruzione e la concussione, tra quelli con tempi allungati sulla prescrizione. Durante la riunione con il premier Mario Draghi, la Guardasigilli Marta Cartabia, e i ministri M5S, la proposta del presidente del Consiglio e della responsabile della Giustizia era di prevedere tre anni al posto di due in appello per questi tipi di reato. Ora la mediazione raggiunta è sui tre anni per chiudere un processo in appello e 18 mesi in Cassazione, pena l'azzeramento del procedimento.
Le sembra una soluzione soddisfacente?
«Non dimentichiamo che la prescrizione è un rimedio al malfunzionamento della giustizia. Una giustizia sollecita, in teoria, non ha bisogno della prescrizione che fa estinguere la potestà punitiva dello Stato. Bisogna aggiungere che la prescrizione produce effetti proprio nella prima fase, in primo grado. Ora bisogna andare avanti aumentando il numero dei magistrati, organizzando la giustizia in maniera meno rudimentale, accelerando i tempi, individuando rimedi alternativi, impedendo l'esondazione dei procuratori nel mondo della politica, facendo funzionare seriamente il Consiglio superiore della magistratura, nonché riorganizzandone la struttura».
Quale il suo giudizio sulla posizione di fermezza tenuta da Mario Draghi nei confronti del M5S, escludendo l'opzione dell'astensione? Draghi avrebbe detto al ministro Stefano Patuanelli, capo della delegazione Cinquestelle: «Se vi astenete, me ne ricorderò».
«Mi sembra giustissimo che il presidente del Consiglio dei ministri ricordi a una forza politica che fa parte della maggioranza che non può astenersi su un provvedimento che proviene dal Consiglio dei ministri».
L'argomento che ha provocato divisioni all'interno delle forze di maggioranza è stato costituito dalla prescrizione. Un tema simbolico. In aula, per altro, non si possono escludere colpi di scena. Ritiene che su questo terreno si sconti una divergenza politica sostanziale tra opposte concezioni? Insomma, tra i difensori di uno Stato di diritto e tra chi per utilizzare una sua felice definizione si sente garante della giustizia alla Robin Hood?
«Conviene ripeterlo: il tema della prescrizione non è quello più importante. Purtroppo, fa parte delle mitologie di cui vive un dibattito politico che dovrebbe, invece, nutrirsi di programmi, indicazione dei tempi, individuazione dei mezzi, capacità di monitorare l'esecuzione dei programmi. Nulla di tutto questo. Solo l'agitazione intorno alla bandiera della prescrizione».
Teme che le inquietudini nella maggioranza provochino ricadute in sede europea? La questione Giustizia in Italia è all'ordine del giorno almeno da un trentennio e intanto si è declinata in una complicata complessità. Oggi viene affrontata con l'urgenza di una riforma posta con forza dalla dinamica del Recovery Plan: senza un intervento legislativo in materia sarebbero a rischio fondi del Piano europeo. Le tensioni di oggi non aiutano a cogliere la vastità dei problemi sul tappeto.
«La questione Giustizia è ormai quella più importante tra le questioni che riguardano lo Stato italiano. Ha molti aspetti. Il primo è quello della lentezza della giustizia. Il secondo è quello della politicizzazione endogena di una parte della magistratura. Il terzo è quello del rapporto tra Procure e opinione pubblica. Il quarto è quello della priorità delle questioni che debbono essere di oggetto di indagine da parte delle Procure. Infine, c'è il problema della composizione delle procedure del Consiglio superiore della magistratura».
Appunto: la lentezza. Il punto di attacco della cosiddetta riforma proposta dal ministro Marta Cartabia è quello relativo alla velocizzazione delle procedure: la lentezza dei processi ormai ha raggiunto livelli di straordinaria gravità. Qualche dato: sette anni e tre mesi per avere una sentenza definitiva in una causa civile, un tempo doppio rispetto alla Francia: fascicoli pendenti che nel 2020 sono aumentati del 3 per cento rispetto all'anno precedente superando quota 1.600.000; un arretrato dei processi che, dopo anni in cui era andato lentamente calando, è tornato a crescere, del 3,1 per cento nel 2020. Sempre rimanendo alla Francia, qui lo stesso iter richiede 3 anni e 4 mesi, in Spagna 1.238 giorni e in Svezia 377 giorni. È dunque d'accordo con questa scelta di priorità?
«Giustissimo cominciare con l'organizzazione dei processi e la velocità della giustizia. Occorre che gli italiani riacquistino fiducia nella giustizia ed è quindi fondamentale che questa venga amministrata in tempi rapidi. Bisogna sempre cominciare dalla funzione e dal servizio reso alla collettività, per poi passare alle persone e alle procedure interne».
Sarà possibile affrontare poi i capitoli relativi al ruolo delle Procure - e alla funzione politica che spesso hanno assunto - e quindi alla riforma del Csm? Vede, cioè, le condizioni politiche per andare in questa direzione?
«Non si può cambiare tutto in una volta. Occorre procedere, pragmaticamente, passo dopo passo. Prima il servizio della giustizia, perché la giustizia sia sollecita. Poi, le Procure dove bisogna soltanto modificare le regole del gioco. Infine, il Csm che richiede interventi più profondi e forse anche di ordine costituzionale».
Parallelamente al percorso avviato dalla riforma Cartabia, sta camminando anche l'ipotesi di un referendum sulla Giustizia, promosso per altro da forze che compongono la maggioranza di governo. Ritiene che le decisioni del governo possano subire ulteriori rimbalzi?
«Come dichiarato dagli stessi proponenti dei referendum, questi hanno un fine sollecitatorio. D'altra parte, cambiamenti analitici, di dettaglio, è difficile farli per referendum. Quindi il fine sollecitatorio è funzionale all'azione del governo. In questo momento, non vedo contraddizioni tra le due iniziative».