La protezione civile compie 30 anni, intervista a Curcio: «Nati dal fare presto, oggi dobbiamo fare prima»

La protezione civile compie 30 anni, intervista a Curcio: «Nati dal fare presto, oggi dobbiamo fare prima»
di Generoso Picone
Giovedì 24 Febbraio 2022, 11:00
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Quel titolo, «Fate presto?», e quei giorni delle macerie e della rabbia. Era il 26 novembre 1980, un mercoledì, e la domenica precedente, il tragico 23, l'Irpinia, l'alto salernitano e la Basilicata, le aree dell'osso del Mezzogiorno erano state devastate da uno dei più tremendi terremoti nella storia d'Italia: una scossa di magnitudo 6,9 e di intensità 10 nella scala Mercalli a cui seguirono altre rovinose causò 2914 morti, 8848 feriti, 280mila sfollati. Tre giorni dopo i soccorsi tardavano ad arrivare, si scavava con le mani tra le macerie, a Conza della Campania o a Sant'Angelo dei Lombardi giungevano prima gli inviati de Il Mattino e mai le colonne d'aiuto. Il giornale gridò a caratteri cubitali «Fate presto», Andy Warhol ne avrebbe fatto un'opera d'arte, il presidente Sandro Pertini si rese interprete dell'indignazione di tutti, l'Italia e il mondo risposero e dall'angoscia cominciò a prendere forma la struttura che si cominciò a chiamare Protezione civile.

Oggi che il Servizio nazionale compie i suoi trent'anni, con la legge istitutiva 225 del 24 febbraio 1992, Fabrizio Curcio, il capo del Dipartimento, rivolterebbe il titolo di allora per porlo a simbolo di una nuova civiltà nella lotta alle emergenze. «Da Fate presto a Fate prima: uno sforzo mai terminato che ha l'obiettivo costante di rispondere alle esigenze della comunità», dice. 

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Curcio, ricorda?
«Certo.

Dopo la catastrofe del 23 novembre 1980 si avviò la presa d'atto della necessità di razionalizzare questa risorsa spontanea e di metterla a sistema e occorre riconoscere lo straordinario merito che ebbe Giuseppe Zamberletti nel dare una identità alla Protezione civile. In precedenza c'erano stati altri importanti episodi di solidarietà nel corso dei quali si era esaltato lo spirito di grande generosità degli italiani: l'alluvione di Firenze il 4 novembre 1966 e il terremoto in Friuli del 6 maggio 1976. Ma si capì che occorreva compiere un salto di qualità. Dodici anni di discussioni parlamentari, con in mezzo un altro evento calamitoso come l'alluvione in Valtellina tra il 18 e il 28 luglio 1987, portarono alla legge 225».

Trent'anni costituiscono un periodo che consente di trarre un bilancio. Intanto, da un terribile terremoto a una gravissima pandemia, l'Italia ha subìto di tutto e lei, nella sua attività in Protezione civile dal 2007, ha affrontato ogni tipo di emergenza. Che lezione ne ha tratto?
«Che bisognerebbe smettere di parlare di prevenzione durante lo svolgersi delle emergenze. Occorre farlo prima. La prevenzione dei disastri ha bisogno di tempo e di cura, dunque di pianificazione e di programmazione. Fa molto arrabbiare constatare che si continui ad affermare che gli italiani danno il meglio nelle situazioni di emergenza, quasi non avessero ancora nel loro dna la capacità di programmare. Gli italiani, invece, sono in grado di attuare una buona programmazione. Il Servizio di Protezione civile opera coniugando la tutela dell'integrità della vita, come indica l'articolo 1 della legge, attraverso il coordinamento tra energie pubbliche e private, avvalendosi delle più aggiornate possibilità fornite dalla scienza. Proprio il supporto scientifico tanto avanzato ha consentito, per esempio, di mettere in sicurezza della nave Costa Concordia, naufragata al largo dell'Isola del Giglio il 13 gennaio 2012: il dispositivo adottato è stato il risultato di due anni di studio, nel merito e nel metodo, è stato in grado di evitare l'inquinamento e assicurare lo smaltimento del carico di carburante. È stata la dimostrazione che si può programmare e con successo». 

Ma non si fa ancora. Secondo lei perché?
«È una questione che riguarda tutti. Evitiamo quindi lo scarica barile delle responsabilità. Il tema resta quello della corretta e puntuale prevenzione del rischio. Ragionando di terremoti non possiamo affrontare i casi soltanto dal punto di vista delle infrastrutture. C'è un livello di vulnerabilità del territorio nazionale che non si può sottacere: è un dato di fatto. Il programma nazionale di Protezione civile nel 2014 stabilisce le cosiddette pianificazioni territoriali, indicando in una materia comunque concorrente ruoli e competenze degli enti locali. Grazie a ciò abbiamo avuto buone ricostruzioni. Abbiamo compiuto passi in avanti, però occorre continuare a lavorare sulla consapevolezza del rischio. Se si adottasse ovunque la prassi del fascicolo del fabbricato, si andrebbe a conoscere l'esatta condizione della struttura e si potrebbe intervenire nei termini e nei tempi adeguati».

L'utilizzo del sisma bonus può produrre effetti davvero positivi?
«Sta andando avanti e, al di là delle ripercussioni finanziarie, contribuisce a garantire margini di sicurezza alle abitazioni. Si potrà anche pensare a misure analoghe e costituisce la prova che lo Stato sta facendo la sua parte. A condizione che si accresca sempre di più il grado di consapevolezza generale del pericolo».

Che in Campania resta alto.
«In Campania abbiamo un po' di tutto: in un'area dall'alta densità abitativa c'è una vasta gamma delle categorie di rischio, in particolare due vulcani il Vesuvio e nei Campi flegrei da monitorare costantemente. Ed è fondamentale il ruolo degli enti locali. Io mostro spesso una fotografia della zona vesuviana del 1946 e la metto a confronto con una recente: è la testimonianza visiva di come chi amministrava il territorio e la popolazione non abbiano compreso l'esatta entità del pericolo andando a costruire laddove non avrebbero mai dovuto. Però questo è».

Con 800mila persone che, dopo una eruzione, si dovrebbero spostare.
«Oggi occorre affrontare questa situazione indipendentemente dagli errori del passato. I sindaci sono le prime autorità di Protezione civile. Il ruolo degli amministratori locali è fondamentale nel senso della responsabilità e della conoscenza del territorio».

Se si può indicare una priorità, che cosa maggiormente la preoccupa?
«Tutti ci deve preoccupare, nel senso di occuparcene prima. La bellezza del paesaggio è ferita da una serie di offese: noi abbiamo gli strumenti per combattere, piani e tempo. Non dappertutto si registra la stessa attenzione, almeno non in maniera costante. Penso agli incendi boschivi, con conseguenze gravissimi per l'assetto idrogeologico del territorio, alla siccità specie del Po. Non si può mettere la testa sotto la sabbia, nella battaglia dei rischi serve la presa di coscienza e la comunicazione al cittadino. L'emergenza sanitaria dovuta alla pandemia lo ha dimostrato: quando si informa, le regole vengono rispettare. Il sistema di Protezione civile è la cornice in cui chiudere questo circuito». 

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