Regionali, tre milioni di voti del Pd-M5S finiti nell’astensionismo. Zingaretti: «Serviva l’alleanza»

Due milioni in Lombardia e uno nel Lazio hanno abbandonato l’ex fronte rosso-giallo

Pd-M5S, tre milioni di voti finiti nell’astensionismo Zingaretti: serviva l’alleanza
Pd-M5S, tre milioni di voti finiti nell’astensionismo Zingaretti: serviva l’alleanza
di Andrea Bulleri
Mercoledì 15 Febbraio 2023, 00:14 - Ultimo agg. 13:43
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Un’emorragia. O meglio, una fuga. Che in dieci anni ha drenato al fronte del centrosinistra, tra Lazio e Lombardia, circa tre milioni di voti. Mentre la metà campo avversaria è rimasta sostanzialmente stabile, soprattutto nel Lazio, riuscendo a riportare ai seggi più o meno lo stesso numero di persone del 2013. Se l’astensione è stata la vera protagonista di questa tornata di Regionali, la disaffezione per le urne non pare aver colpito allo stesso modo i diversi schieramenti in partita. Anzi. Tanto che tra i dem, nel day after della batosta, è scattato l’allarme. «Il nostro popolo non è andato a votare quando si è reso conto che non c’era una proposta di governo, che noi e i Cinquestelle andavamo sì divisi, ma uniti verso la sconfitta», commenta l’ex governatore Nicola Zingaretti. Che rivolge una stoccata ai suoi: «Quando lo dicevo io che serviva il “campo largo” mi dicevano che ero fissato: forse questa sleppa – conclude – ci voleva». 

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CROLLO VERTICALE

Per rendersi conto del crollo verticale subito dal fronte progressista (inteso come somma di Pd, M5S e formazioni minori del centrosinistra) basta mettere in fila i dati delle ultime tre elezioni nel Lazio e in Lombardia.

Non le percentuali, ma i numeri assoluti. Si scopre così che nel 2013, quando a conquistare per la prima volta il palazzo di via Cristoforo Colombo fu proprio Zingaretti, la coalizione che lo sosteneva incassò più di un milione e 330mila voti. Cinque anni più tardi, nonostante la riconferma del governatore uscente, le schede in suo favore furono oltre 300mila in meno. Fino all’ecatombe dell’altroieri, con il magro bottino di 581mila voti raccolti dall’aspirante successore dem di Zingaretti, Alessio D’Amato (che aveva pure il sostegno del Terzo polo). Totale elettori dispersi: quasi 750mila. 

Una parabola non dissimile da quella seguita dal Movimento. Forti di 660mila preferenze dieci anni fa, nel 2018 i pentastellati laziali ne hanno addirittura guadagnate 200mila. Salvo poi perdere per strada quasi 8 voti su 10 domenica e lunedì, quando le schede favorevoli raggranellate da Giuseppe Conte e dalla sua front-woman Donatella Bianchi sono state appena 186 mila. Una fuga che, sommata a quella subìta dal Pd, dà un risultato da far impallidire: oltre 1,2 milioni di voti persi in dieci anni. In pratica, quasi due su tre. 

E il centrodestra? Anche lo schieramento FdI–Lega–FI non è riuscito a mantenere fedeli tutti i suoi sostenitori, negli ultimi dieci anni. Ma le perdite sono state quasi inesistenti, se comparate a quelle degli avversari: se nel 2013 Francesco Storace mobilitava poco meno di 960mila sostenitori, una decade più tardi Francesco Rocca è riuscito a riportarne alle urne 935mila: “soltanto” 25mila in meno. 

Bilancio non troppo diverso se ci si sofferma sui dati della Lombardia. Dove anche il centrodestra accusa un rallentamento, ma sempre in misura ridotta rispetto ai competitor. Il fronte conservatore infatti passa dai quasi 2 milioni e mezzo di voti del 2013 al milione e 700mila di due giorni fa, con uno scarto di 680mila preferenze (mentre nel 2018 era riuscito perfino ad aumentare il proprio bacino di consenso). Il centrosinistra lombardo, in ogni caso – sempre in formazione compatta Pd-5S nelle ultime tornate – lascia a casa tre volte tanto: il bilancio delle Regionali 2023 segna quasi due milioni di voti persi rispetto al 2013 (1 milione e 874mila). 

POCO COMPETITIVI

Come spiegarsi una simile diserzione? Zingaretti punta il dito contro le mancate alleanze, che hanno reso il fronte progressista poco competitivo. Lo stesso fa Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e coordinatore dei primi cittadini dem: «La nostra gente sapeva che avremmo perso comunque», nota amaro Ricci. «Se da una parte c’è uno schieramento compatto, mentre il fronte opposto corre diviso, passa l’idea che non c’è partita. E così, molti che a settembre avevano votato per noi stavolta sono rimasti a casa». 

Un rospo difficile da mandar giù, per il Pd. E se uno degli esponenti di più lungo corso tra i dem, come Luigi Zanda, attribuisce il peso dell’astensionismo all’«onda lunga dell’antipolitica» (e al fatto che «tanti elettori di sinistra sono rimasti delusi dai partiti di quell’area»), per Gianni Cuperlo la ricetta è tornare a rivolgersi alle fasce deboli: «L’astensione è figlia della convinzione che il voto è inutile, perché è incapace di migliorare nell’immediato le questioni che stanno a cuore ai cittadini: il reddito, la casa, il diritto alla salute». Come se ne esce? «Recuperando un rapporto con quel pezzo di Paese che non riusciamo più a rappresentare», risponde l’ex presidente dem. E magari, convincendolo a tornare alle urne. 

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