Senato, maggioranza appesa a un solo voto sui tagli alle Camere

Senato, maggioranza appesa a un solo voto sui tagli alle Camere
di Simone Canettieri
Domenica 30 Giugno 2019, 14:00 - Ultimo agg. 17:36
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Un voto in più. Forse. E mille sospetti. Dietro le quinte di Lega e M5S si agita lo spettro del 10 luglio. Quando - in piena finestra aperta per ritornare alle urne a settembre - approderà a Palazzo Madama la riforma per il taglio dei parlamentari, vessillo dei grillini scritto in calce nel contratto di governo. I numeri che girano in questi giorni non fanno dormire sonni tranquilli a Stefano Patuanelli, capogruppo pentastellato. Dopo l'espulsione di Paola Nugnes, la maggioranza segna 164. Dunque si regge su 3 miseri voti.
 
Ma per quel giorno - il 10 luglio - sono già date per scontate le assenze (giustificate) di Umberto Bossi per il Carroccio da una parte e di Vittoria Bogo Deledda per i grillini dall'altra. E così il governo rimane appeso a un senatore. Il problema è che «il taglio delle poltrone» in quanto legge di revisione costituzionale ha bisogno della maggioranza assoluta. Dunque in Aula dovranno esserci anche tutti i membri di governo, a partire dal ministro Matteo Salvini. Massimiliano Romeo, capogruppo del Carroccio, l'altro giorno spiegava ai suoi: «Tolto l'Umberto, i nostri 57 voti ci saranno, rientreranno tutti dalle vacanze o dalle missioni». Il problema appunto è in casa M5S: la senatrice dissidente e sotto la scure dei probiviri Elena Fattori, compagna di Nugnes in tante battaglie, negli ultimi giorni ha fatto trapelare ufficiosamente che sta pensando di votare contro. Ecco che così di botto la maggioranza gialloverde non esisterebbe più in Senato. Anche il collega Lello Ciampolillo sembra intenzionato a opporsi. Ragionano i vertici M5S: «Se due o tre dei nostri dovessero opporsi al taglio dei parlamentari, come faremmo a non espellerli?».

Già, una mossa obbligata che diventerebbe autolesionista: la punizione condannerebbe il governo a non avere più la maggioranza. «Il passaggio del 10 è importante in ottica futura, per quando ci sarà da votare una fiducia. Il voto in sé sul taglio dei parlamentari non mi preoccupa più di tanto», cerca di dissimulare Gianluca Perilli, vicecapogruppo M5S al Senato. La riforma prevede una diminuzione importante degli eletti ne rimarrebbero 400 a Montecitorio e 200 a Palazzo Madama. Per il rotto della cuffia il voto del 10 - per il quale appunto servono 161 sì - potrebbe comunque passare grazie a Maurizio Buccarella (espulso per i rimborsi), Ricardo Merlo e Adriano Cario (Maie). Poi ci sono le opposizioni: Forza Italia, con Luigi Vitali ha preannunciato che «il voto favorevole espresso a suo tempo, che rappresentava un'apertura di credito, non può essere confermato». E anche il Pd è per il «no» come Leu. Rimane Fratelli d'Italia: nei precedenti passaggi aveva votato con la maggioranza sul taglio, ma adesso prende tempo. Fabio Rampelli, che però è vicepresidente della Camera dunque in un altro ramo del parlamento, è sicuro che «il nostro indirizzo non cambierà». Anche se il presidente del gruppo dei meloniani, Luca Ciriani, ha confessato a diversi colleghi che una posizione netta ancora non c'è. La partita è complessa. Per ampi strati del M5S se saltasse la maggioranza e soprattutto anche la riforma, Matteo Salvini coglierebbe al balzo la palla per dire che l'esperienza è conclusa. «Quale miglior pretesto per staccare la spina se non davanti all'evidenza dei numeri?», ragionano ancora nel quartier generale dei grillini, una strana casamatta dove la propaganda dei comunicatori getta acqua sul fuoco, al contrario dei politici più che preoccupati sulla tenuta dell'esecutivo. «Ci sono troppe variabili che non ci fanno stare sereni sul futuro», dice un sottosegretario grillino di peso. «Salvini è pressato dalla Lega alta, i big e gli storici che gli consigliano di rompere, ormai è noto», riprende un big del Senato, sempre grillino.

E così ecco il fantasma del 10 luglio con tanto di nemesi. A rischiare di saltare non sono le poltrone dei parlamentari, ma quelle dei pentastellati, da Di Maio giù, che siedono comodi al governo.

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