Trattativa Stato-Mafia, il pg chiede 9 anni per l'ex ministro democristiano Mannino

Trattativa Stato-Mafia, il pg chiede 9 anni per l'ex ministro democristiano Mannino
Lunedì 6 Maggio 2019, 13:03 - Ultimo agg. 13 Giugno, 12:17
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La richiesta di pena arriva al termine di una requisitoria durata tre udienze: 9 anni di carcere, gli stessi invocati in primo grado. Stavolta a giudicare l'ex ministro dc Calogero Mannino, imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, è la corte d'appello di Palermo che si accinge a concludere una vicenda giudiziaria lunga sette anni. «Le acquisizioni probatorie confermano inoppugnabilmente il timore dell'onorevole Mannino di essere ucciso e le sue azioni per attivare un 'turpe do ut des' per stoppare la strategia stragista avviata da Cosa nostra», hanno sostenuto Sergio Barbiera e Giuseppe Fici, i due magistrati che hanno rappresentato l'accusa in appello.

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«La richiesta avanzata è priva di ogni fondamento e prova. Se prova v'è, è quella di una pretesa pregiudiziale e fantasiosa», ha replicato l'imputato con una nota. La Procura generale, dunque, si è mossa lungo il solco narrativo tracciato dai pm del primo grado. Una continuità affermata a dispetto dell'assoluzione disposta dal gup che, con una sentenza piuttosto critica nei confronti dell'accusa, bocciò la ricostruzione degli inquirenti. E la tesi è questa: Mannino, nella «lista» dei nemici che Cosa nostra aveva deciso di eliminare per «saldare i conti» con chi non aveva mantenuto i patti stretti coi clan, avrebbe avviato, grazie ai suoi contatti con l'ex capo del Ros Antonio Subranni, una sorta di trattativa coi boss, anche per il tramite dell'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, per salvarsi la vita.

Una narrazione processuale che vede nell'ex potente politico il «motore» del dialogo che pezzi dell'Arma, con la copertura di parte delle istituzioni, avrebbero avuto con la mafia per fare cessare la stagione delle stragi. Un patto che lo Stato avrebbe suggellato offrendo in cambio l'impunità per il boss Bernardo Provenzano, sostenitore in seno a Cosa nostra della linea del dialogo, una azione politica meno rigorosa nel contrasto ai clan e un alleggerimento del carcere duro per i mafiosi. Il gup definì inadeguate le «prove» portate dalla Procura a sostengo della sua tesi.

«Non c'è qualcosa, come delle fonti orali o documentali, che dimostrino - scrisse - il collegamento tra l'iniziativa dei Ros di interloquire con Vito Ciancimino e l'evento ipotizzato dall'accusa di un accordo tra Mannino e Cosa nostra».
Un giudizio lapidario che non ha influenzato la corte d'assise di Palermo che per la trattativa ha condannato a pene severe i coimputati di Mannino: gli ufficiali del Ros a cui l'ex ministro si era rivolto, i boss Bagarella e Cinà, Marcello Dell'Utri, Massimo Ciancimino e il pentito Giovanni Brusca. Per loro è appena cominciato il processo d'appello. La stessa storia, due giudizi diversi e finora due verità incompatibili.
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