Sud, Costituzione violata sul diritto all'uguaglianza

Sud, Costituzione violata sul diritto all'uguaglianza
di Marco Esposito
Sabato 5 Giugno 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:07
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«C’è un articolo della nostra Costituzione, quello sull’uguaglianza, che suggerisce una riflessione su quanto sia lungo, faticoso e contrastato il cammino per tradurre nella realtà un diritto pur solennemente sancito». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso al Quirinale in un’occasione anch’essa solenne: il 75° anniversario della Repubblica. Dei tre aggettivi usati da Mattarella, quello che merita maggiore attenzione è «contrastato», perché che sia lungo e faticoso raggiungere la piena uguaglianza nei divari territoriali come nei divari tra uomini e donne è in fondo prevedibile, mentre il contrasto è meno spiegabile. I diritti di una donna non tolgono qualcosa ai maschi, così come gli asili nido per i bambini calabresi non sottraggono nulla ai bimbi emiliani, anzi servono a costruire un futuro migliore per tutti. Eppure il contrasto c’è, è cresciuto negli ultimi anni ed è particolarmente evidente nei divari territoriali, con ricadute sulla questione femminile, grave soprattutto al Sud.

La Costituzione non si occupa di uguaglianza soltanto all’articolo 3 ma torna più volte sull’obiettivo di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona, ovunque residente. Tuttavia nella concreta attuazione del dettato costituzionale si sono traditi gli obiettivi e si è diffusa una palese violazione dei fini nobili solennemente espressi, arrivando addirittura al rovesciamento del principio dell’uguaglianza, con l’utilizzo capzioso delle statistiche sociali. I numeri, invece di essere studiati come guida per le scelte della politica, sono stati trasformati in regole per consolidare (e talvolta aumentare) le disuguaglianze. Come se si dicesse alle donne che «devono» essere pagate meno a parità di lavoro e, di fronte a una rimostranza, si snocciolassero le statistiche per dire: «Perché, oggi non è così?».

Gli esempi valgono più di tanti ragionamenti. L’Istat elabora una stima sulla speranza di vita alla nascita, la più aggiornata è al 2020. In Campania è di 80,8 anni mentre in Veneto è 82,8 anni. Fin qui è statistica. Di fronte ai due anni in meno in Campania si potrebbero aprire molte riflessioni: è un fattore genetico, dipende dagli stili di vita, dalla prevenzione sanitaria e così via. L’Italia utilizza la statistica a rovescio: visto che in Campania si muore prima, riduciamo il fondo sanitario. L’ultimo riparto vede 1.853 euro procapite in Campania e 1.901 in Veneto.
Altro esempio, sempre partendo da tabelle Istat: in Campania ci sono 1.870 adulti con gravi disabilità fisiche e mentali ospiti di strutture residenziali dedicate, mentre in Veneto sono 4.776.

Dobbiamo dedurre che ci sono luoghi dove si concentrano maggiori disabilità? Più probabile che la presenza di strutture sia legata alla ricchezza dei territori e quindi abbia a che fare con un’altra rilevazione Istat, quella del Pil procapite, che vede la Campania a 18.200 euro e il Veneto a 32.415. All’articolo 38 si legge «ogni cittadino inabile ha diritto», ma non si intende davvero «ogni».

Altro esempio, l’istruzione. Quando nel 2014 si doveva definire il fabbisogno standard di servizi comunali, i sindaci hanno ricevuto un formulario per indicare cosa facesse il municipio e il piè di lista di quel formulario è diventato il diritto da garantire, con i soldi di tutti gli italiani, in quel luogo. La statistica rileva che ci sono territori dove il tempo pieno a scuola è la regola e altri nei quali è l’eccezione; ma noi abbiamo trasformato la statistica in un diritto differenziato. Le norme applicate dal 2015 valgono ancora per il 2021 e così oggi il diritto riconosciuto in molte scuole del Sud equivale a non avere il tempo pieno; mentre in Emilia il diritto riconosciuto consiste nella mensa scolastica, nell’apertura anticipata delle scuole, nelle chiusura posticipata e persino nelle vacanze estive, sempre a carico del fondo di solidarietà comunale, perché in Italia siamo generosi verso chi ha fabbisogni (storici) maggiori.

Se dalla scuola dell’obbligo si passa all’università il quadro non cambia. In Italia dal 2018 c’è la regola del turnover al 100% (prima era anche meno) non per singolo ateneo bensì come media nazionale. I conteggi sono complessi però una voce significativa è quella delle tasse pagate dagli studenti, le quali dipendono dalla fascia di reddito e quindi sono maggiori nelle aree agiate. E così, in base all’ultimo riparto di punti organico, all’Università Vanvitelli di Caserta sono andati in pensione in 43 mentre alla Ca’ Foscari di Venezia in 21. I punti organico riconosciuti sono stati 27 alla Vanvitelli e 31 alla Ca’ Foscari. In pratica per sostituire due prof a Caserta ne assumi uno a Caserta e l’altro a Venezia. Il 100% medio è rispettato, ma in favore delle aree economicamente forti.

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Il grande buco nero nell’attuazione della Costituzione non è all’articolo 3, che è di principio, ma agli articoli 117 e 119 con la mancata definizione sia dei livelli essenziali delle prestazioni (quanti asili nido? quanto tempo pieno a scuola? dopo quanti anni va cambiato un autobus?) sia della perequazione infrastrutturale. Quest’ultima, introdotta nel 2009, sta assumendo aspetti comici. La legge del 2009, modificata due volte quest’anno, prevede una Ricognizione per individuare i divari di infrastrutture, ovvero per sapere quanto è già stranoto nelle statistiche. La Ricognizione dovrebbe essere pronta per il 30 novembre 2021, per arrivare a stabilire le priorità d’intervento entro il 31 marzo 2022, a Recovery Plan ormai decollato; priorità che nell’ultima versione normativa dovranno tener conto anche della «densità delle unità produttive» e non più dei «deficit di sviluppo». Ancora una volta una statistica (la scarsa densità di attività produttive al Sud) invece di portare a un’analisi (per caso dipende da carenza di infrastrutture?) si trasforma in una regola: servono meno infrastrutture al Sud.

Del resto, in attesa della mitica Ricognizione, l’Italia non si è fermata con gli investimenti. Per le linee metropolitane sono in programma, secondo l’ultimo rapporto di Pendolaria, interventi per 4,1 miliardi nella città metropolitana di Milano e di 2,2 miliardi in quella di Napoli, molto simile per popolazione. Come mai? Milano già oggi ha in esercizio 50 chilometri di rete più che a Napoli (97 contro 47) peraltro con una frequenza di treni più che doppia. È un divario da colmare? No: l’obiettivo al 2030 è accrescere la differenza tra le due metropoli da 50 a 73 chilometri. L’uguaglianza è davvero un cammino lungo, faticoso e soprattutto contrastato. 

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