La clamorosa gaffe dell’allora presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, risale a due anni fa. Dijsselbloem è uno dei falchi che sostenevano a tutto spiano la politica del rigore della Commissione Ue: «I Paesi del Sud Europa non possono spendere tutto in alcol e donne e poi chiedere aiuti», disse testualmente in un'intervista choc che gli costò una valanga di critiche e di richieste di dimissioni (ma lui lasciò l'incarico solo parecchi mesi dopo). Parole pesanti, a dir poco infondate ma frutto di una narrazione del rapporto tra Europa del Nord e aree deboli che, esternazioni a parte, rimane ancora oggi molto diffusa, e non solo in Germania o nei Paesi Bassi. Basterebbe ricordare quanti, nel caso dell'Italia, continuano a ritenere ad esempio eccessive o del tutto inutili le risorse destinate alle Regioni meridionali a fronte del persistente divario con il Centronord e le medie europee. Decine e decine di miliardi di euro sprecati o male utilizzati o perfino mai spesi, si sostiene: dalla disoccupazione al Pil pro capite, dalle infrastrutture alla competitività dei servizi, il Mezzogiorno è rimasto il fanalino di coda dell'Ue, con al contrario un tasso di povertà da primato continentale. Eloquenti gli ultimi aggiornamenti di Eurostat: ad aprile «ci sono realtà regionali al Sud e nelle isole con una mancanza di occupazione grande addirittura quattro volte quelle di alcune realtà del Settentrione d'Italia». Ma le cose stanno davvero così? E l'Europa è vittima o carnefice di questo deprimente scenario?
Che l'Ue sia stata decisiva per impedire al Sud di affondare definitivamente è un dato assoluto, indiscutibile. Chi ancora ne dubita, può leggere i dati dei Conti pubblici territoriali, l'osservatorio dell'Agenzia per la Coesione che analizza su scala regionale i flussi finanziari di entrata e di spesa delle amministrazioni pubbliche. Da quelle tabelle emerge che i fondi europei hanno assunto con il passare degli anni un ruolo sempre più determinante nel sostenere e spesso nel garantire le politiche di sviluppo del Mezzogiorno, a fronte di investimenti pubblici nazionali in caduta libera (dieci miliardi in meno solo nel 2017). I soldi di Bruxelles, per essere ancora più chiari, hanno letteralmente salvato il Sud, pur essendo stati pensati per essere solo aggiuntivi (addizionali, come dicono i tecnici) della spesa pubblica dello Stato. Qualche numero: le risorse comunitarie e quelle nazionali per la Coesione (il cosiddetto Fsc) hanno rappresentato in media più della metà della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, con una punta massima del 72% toccata nel 2015, non a caso l'anno in cui la decrescita del Pil meridionale si interruppe dopo ben sette anni di segno negativo. Ancora nel 2016, ricorda la Svimez, «la spesa per la pubblica amministrazione aveva toccato il livello più basso nel Mezzogiorno di sempre». Con il paradosso che in Italia è arrivato proprio dalle Regioni meridionali l'impulso più forte alla spending review della Pa: la fuoriuscita di dipendenti pubblici al Sud è stata di gran lunga maggiore della media nazionale.
«I fondi europei dice l'economista Emiliano Brancaccio dell'università del Sannio sono una goccia nel mare dell'austerity. Per fare un esempio, compensano solo al 20% le risorse erogate dalla Cassa per il Mezzogiorno le quali erano a loro volta meno della metà di quelle destinate dalla Germania al recupero della parte Est del suo territorio». Ma a guardare bene i numeri, spiega Giuseppe Provenzano, vicedirettore della Svimez, «si scopre che il peso delle risorse della politica di coesione è persino relativo rispetto alla loro rappresentazione mediatica: i 100 miliardi per il Sud, di cui si parla ormai da tempo, sono sempre gli stessi dal 2007, perché a venire meno sono state le risorse nazionali, spesso dirottate verso altri obiettivi». Al punto, insiste l'economista, che «la falsa retorica sul Sud inondato di risorse pubbliche sprecate o finite nel malaffare, visto che l'obiettivo convergenza rimaneva lontano, è servita a preparare la più grande operazione di redistribuzione alla rovescia di soldi della storia repubblicana. Oltre al danno, la beffa».
Soldi benedetti, insomma, quelli europei. E utili, a dispetto di tanti luoghi comuni, anche per progetti di assoluto valore internazionale. Il caso più noto è quello del Grande restauro di Pompei, 100 milioni di fondi Ue che hanno garantito la valorizzazione e la tutela del sito archeologico più conosciuto al mondo. Ma l'elenco è molto lungo. Senza risorse europee sarebbe stato impossibile realizzare il polo tecnologico della Federico II a San Giovanni a Teduccio e permettere di conseguenza l'arrivo di Apple, Cisco e Deloitte; non si sarebbero potuti avviare (e in alcuni casi anche completare) le tratte della metropolitana di Napoli; sarebbe stato persino inutile pianificare il recupero di centri storici anche se protetti dall'Unesco (e il caso Napoli sui ritardi della spesa non cancella la validità del finanziamento comunitario) o comprare bus e treni, costruire scuole. E giù fino ai piccoli Comuni per i quali, esauriti i trasferimenti dallo Stato centrale e bloccati i bilanci dai vincoli della legge di stabilità finanziaria, non si poteva più accedere ad altre fonti anche per l'ordinaria amministrazione.
Ma sull'altro piatto della bilancia pesano, e non poco, anche frodi, scelte infelici o a dir poco discutibili (come la destinazione dei soldi europei ad iniziative di richiamo turistico che comprendono anche premi, spettacoli e quant'altro). E soprattutto influiscono i ritardi a lungo andare sempre più insopportabili, al netto di indagini e inchieste della magistratura, nella realizzazione di opere pure finanziate da Bruxelles: «Nel Mezzogiorno spiega Gianfranco Viesti dipendono principalmente dal fatto che i lavori pubblici incidono molto di più rispetto al Centronord, 50% contro 19%, rispetto al totale della programmazione della spesa europea. Questo accade sia per le maggiori carenze nelle dotazioni esistenti al Sud, che dunque richiedono nuovi interventi, sia per le norme comunitarie che di fatto riducono di molto le possibilità di finanziare infrastrutture nelle regioni del Centronord». Morale: la frammentazione della spesa, ritenuta una delle principali cause delle colpe del Sud nell'utilizzo dei fondi Ue, c'entra meno rispetto alla complessità dei grandi interventi programmati. Non a caso un'opera pubblica progettata nel Mezzogiorno e finanziata dall'Europa ha tempi di ultimazione quando va bene superiori in media di 3-4 anni rispetto al resto del Paese. La frammentazione, però, non è mai scomparsa. Lo dimostra il già citato exploit della spesa europea del 2015: per evitare di perdere i finanziamenti del ciclo 2007-2013, che consentiva altri 2 anni per rendicontare i lavori eseguiti, si scatenò una corsa vera e propria all'approvazione attraverso gli ormai noti progetti sponda. Alla fine, neanche un euro è mai stato restituito a Bruxelles ma sulla qualità e soprattutto la congruità territoriale dei progetti finanziati i dubbi si sprecano.
Ma è sempre stata colpa delle Regioni, sulle quali anche e soprattutto per strumentalizzazioni elettorali, si annidano ormai da anni critiche e sospetti? «I fondi europei sono difficili da spendere insiste Brancaccio e la cosa riguarda soprattutto gli enti locali che faticano ad attrezzarsi per rispettare i termini e le modalità dell'Ue. Ma questo è anche indicativo del fatto che i criteri di spesa sono stati confezionati sulla base delle caratteristiche di aree più attrezzate: per avere accesso ai fondi Ue devi avere necessariamente elevate competenze tecnico-scientifiche che è più facile trovare a Francoforte sul Meno che in Campania o in Sicilia». E c'è anche altro: molte risorse destinate al Sud vengono gestite dai ministeri competenti e pochi sanno che spesso il capitolo dei ritardi riguarda soprattutto questi ultimi. «Non si può però dimenticare - dice ancora Provenzano che a mancare è stata anche la politica, locale e nazionale. Molti documenti di partenariato sono sembrati più un rituale che una scelta precisa e motivata: forse perché fino a pochissimo tempo fa non c'era neppure una lettura attenta della realtà meridionale. Con l'Agenzia per la Coesione si è voltato pagina ma i ritardi non si colmano in poco tempo». E sono ritardi pesantissimi: un milione e 600mila abitanti trasferitisi per lavoro o per studio al Nord o all'estero in 20 anni, 5mila euro di reddito pro-capite in meno tra Enna e Bolzano, 300mila posti di lavoro non ancora recuperati rispetto alla crisi, l'alta velocità che si ferma a Salerno, il record dei neet, eccetera eccetera.
Il Sud e il paradosso dei fondi Ue: indispensabili anche se spesi male
di Nando Santonastaso
Articolo riservato agli
abbonati
Giovedì 16 Maggio 2019, 12:00 - Ultimo agg. :
16:10
6 Minuti di Lettura
© RIPRODUZIONE RISERVATA