Tangentopoli 30 anni dopo, Bassolino: «La corruzione c’era già, partiti incapaci di reagire»

Tangentopoli 30 anni dopo, Bassolino: «La corruzione c’era già, partiti incapaci di reagire»
di Gigi Di Fiore
Sabato 19 Febbraio 2022, 07:38 - Ultimo agg. 16:55
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Trent’anni fa, era uno dei dieci componenti della segreteria nazionale del Pds. Antonio Bassolino era a Roma, tra i traghettatori dell’ex Pci nella nuova struttura voluta dal segretario Achille Occhetto. Pochi mesi dopo, tornò a Napoli da commissario della federazione provinciale in via dei Fiorentini. Premessa della candidatura vittoriosa a sindaco del novembre 1993. Un biennio segnato da Tangentopoli, da ricordare a distanza di 30 anni.

Bassolino, seppe a Roma dell’arresto di Mario Chiesa?
«Sì. Lo appresi dai giornali come molti. La mia attività nella neonata segreteria nazionale era estesa all’intero Paese. Si collega a Tangentopoli la fine della cosiddetta prima Repubblica, si parla di rivoluzione giudiziaria. Ma a distanza di 30 anni, credo sia necessario fare un’analisi più ampia, storica e politica».
Tangentopoli come parte di una trasformazione più complessiva del Paese?
«Proprio così. Saranno gli storici a fare analisi e interpretazioni profonde. Ma io credo che la trasformazione della società e della politica italiana sia iniziata nel 1989, con il crollo del muro di Berlino. Una vicenda che spinse Occhetto a volere il congresso della Bolognina, in cui venne cambiato il nome del partito avviandone la modifica. Fu il crollo delle ideologie, ma anche il punto di non ritorno della grande divisione mondiale tra est e ovest. Un evento epocale».

Fu premessa di Tangentopoli?
«Fu un cambio di pelle del Pci che, anche quando raggiunse alti consensi ed era il maggiore partito comunista dell’occidente, nella logica dei blocchi non avrebbe mai potuto raggiungere responsabilità di governo.

Undici anni prima, c’era stato il rapimento e la morte di Aldo Moro che sancì la fine dell’idea di compromesso storico, che era di Enrico Berlinguer. Ecco, questi due eventi sono stati la premessa a Tangentopoli, hanno rappresentato altrettanti momenti di disgregazione della prima Repubblica, con le sue logiche internazionali».

Quando arrivarono le inchieste di Mani pulite, la politica si rese conto di cosa succedeva?
«Fu tutto molto rapido. Non ci fu tempo per analisi vere, non ci si rendeva conto della portata di quelle vicende giudiziarie, ma il cambio d’epoca partito dal crollo del muro di Berlino era al centro delle riflessioni del Pds».

In tanti ripetono che il Pds fu tenuto fuori dalle inchieste di Tangentopoli, per scelta e disegno politico. È vero?
«I partiti di governo furono quelli più colpiti dalle indagini, ma anche il Pds ne fu toccato seppure di meno. Anche a Napoli, dove il partito era allo sbando tanto che Occhetto mi chiese di rigenerare da commissario la federazione di via dei Fiorentini. Tornai a Napoli e misi mano a un lavoro non semplice, con alcuni iscritti coinvolti nelle inchieste napoletane».

Uno scenario di macerie?
«Uno scenario in movimento. Proprio in quei mesi, cresceva il fenomeno politico della Lega nord di Umberto Bossi, che acquisiva sempre più consensi. Una novità politica di rottura, negli scenari dei partiti tradizionali. Bisognava capire cosa stava accadendo e dare risposte politiche. E, ripeto, come ho spiegato, non era solo una rivoluzione determinata dalle inchieste di Mani pulite».

Lo sgretolamento degli scenari politici, iniziato prima di Mani Pulite, favorì le inchieste di Tangentopoli?
«L’illegalità non nasceva nel 1992, la corruzione c’era già. Se ci chiediamo come mai emerse con tanta rapidità nelle indagini milanesi, allora non possiamo non considerare l’influenza dei mutamenti di equilibri politici in corso che avevano preceduto l’arresto di Mario Chiesa».

Le indagini trovarono una politica già debole?
«Una politica che non si era resa conto dei cambiamenti, che divenne debole man mano che proseguiva l’azione giudiziaria. Debole di fronte al potere che assumeva l’attività dei magistrati, diventata anche attività mediatico-giudiziaria».

Quali furono le iniziative che prese nella federazione napoletana del Pds?
«Volevo che si tornasse alla politica, al rapporto con la città. Da commissario, convocai un’assemblea pubblica alla sala dei Baroni. Per la città, l’estate del 1993 fu torbida. Avviammo una battaglia per riallacciare il rapporto tra la politica e la gente, mentre venivano meno i presupposti non solo di ordine pubblico, ma anche di ordine civile in un consiglio comunale sfilacciato. Il ministro dell’Interno, Nicola Mancino, ne decise lo scioglimento».

Fu l’effetto delle decine di indagati nella Tangentopoli napoletana?
«Anche, ma non solo. Non c’era più un’amministrazione credibile. Si arrivò alle elezioni comunali anticipate, con l’elezione diretta del sindaco. La sola riforma istituzionale che abbia prodotto un profondo effetto politico nel Paese».

Le elezioni della sua prima elezione a sindaco. Fu l’avvio della risposta politica alla crisi della politica?
«Fu l’inizio di quella che fu chiamata la stagione dei sindaci. Cacciari a Venezia, Rutelli a Roma, Bianco a Catania, Formentini a Milano».

E lei a Napoli.
«Sì, accettai la candidatura, quando si seppe che la destra candidava Alessandra Mussolini. In quel momento, non c’era spazio per vie di mezzo. Destra o sinistra. Ce la feci, ma non fu certo una passeggiata. Fu la prima campagna elettorale anche mediatica, ma la gente sentiva il bisogno di ritrovare un contatto diretto con la politica».

La politica riuscì a riguadagnare terreno?
«Cercò di farlo. A suo modo, diede una risposta politica anche Berlusconi, che fondò il suo partito con una strategia di alleanze con la Lega e lo sdoganamento del Msi di Fini. Dopo Tangentopoli, la politica doveva riacquistare credibilità e poteva farlo solo con i suoi strumenti di proposta e coinvolgimento. Era l’unico modo per superare lo squilibrio che si era creato con il potere giudiziario. Le confesso che, in quella stagione e in quella realtà così difficile, mi guardai molto attorno. Ci misi coraggio e cuore. Partii a ricostruire, nell’era della trasformazione della politica di cui Tangentopoli fu una della concause, non la causa».

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