«Due giovani sostituti della Procura circondariale mettono sotto inchiesta tre noti deputati napoletani, accusandoli del reato di corruzione elettorale. Il loro lavoro ha fatto da grimaldello a inchieste per reati più gravi, sulle quali ha cominciato a indagare, con altrettanto impegno e successo, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli». Nelle parole del procuratore generale di Napoli, Vincenzo Schiano di Colella Lavina, l’immagine dell’avvio della Tangentopoli napoletana, un anno dopo Milano. È il 15 gennaio 1994, la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario a Castelcapuano.
Furono i pm Enzo Piscitelli e Francesco Menditto a mettere sotto inchiesta i parlamentari Franco De Lorenzo del Pli, Alfredo Vito della Dc e Giulio Di Donato del Psi. Era l’indagine, di competenza della Procura circondariale, per corruzione elettorale. Il voto di scambio. Nell’estate del 1992, fu quello il «la» di un’onda che sarebbe diventata inarrestabile, pochi mesi dopo.
Mentre a Milano andavano avanti le indagini sulla tangente Enimont, a Napoli si scatena l’imprevedibile. Luigi Manco, già assessore Dc, arrestato a Bologna in un’inchiesta su un appalto della ricostruzione in Irpinia, decide di parlare con il pm Libero Mancuso e fornisce indicazioni. Nella sua casa al Vomero, fa trovare 10 microbobine. Registrazioni, raccolte di nascosto, di una serie di colloqui compromettenti. Manco aveva voluto cautelarsi e aveva fatto parlare imprenditori e politici su più appalti: dalla privatizzazione della nettezza urbana, ai lavori allo stadio San Paolo. Gli interlocutori di Manco vanno a ruota libera, qualcuno accenna al pagamento di tangenti. In conversazioni diverse, compaiono le voci di Paolo Cirino Pomicino, capocorrente di Manco nella Dc, il consigliere comunale Dc Diego Tesorone, gli imprenditori Bruno Brancaccio e Gabriele Serriello. Le bobine vengono spedite alla Procura di Napoli, guidata da Vittorio Sbordone. Un colpo improvviso di fortuna, casuale proprio come lo furono le dichiarazioni seguite all’arresto di Mario Chiesa a Milano. Dalle bobine, le notizie più immediate riguardano l’appalto comunale per la privatizzazione della Nu. Il fascicolo viene affidato ai pm Nicola Quatrano e Rosario Cantelmo. Nella notte, chiedono delle ordinanze cautelari firmate dal gip Gennaro Costagliola, che sarebbe diventato il Ghitti napoletano. L’appalto sulla Nu valeva 350 miliardi di lire, con un bando cucito a tavolino, accusa la Procura napoletana. Coinvolti l’ex assessore socialista Antonio Cigliano, con gli imprenditori Eugenio Buontempo e Gabriele Serriello. E poi funzionari comunali e altri imprenditori, titolari delle ditte che avevano ottenuto l’appalto. Tra Napoli e Roma, scattano gli arresti. Parte la Tangentopoli napoletana.
Il quadro ricostruito dall’inchiesta arriva a definire due filoni miliardari di tangenti legate all’attività del Comune di Napoli: la privatizzazione della nettezza urbana gestita dal Psi e la sistemazione del patrimonio comunale gestita dalla Dc.
Anche a Napoli, comincia un fenomeno già visto a Milano. Gli arrestati ammettono, fanno rivelazioni che aprono nuovi filoni d’indagine. Parla l’imprenditore Bruno Brancaccio e viene scarcerato. In quei giorni, «Il Mattino» dedica tre pagine nazionali a seguire tutte le vicende investigative, sotto la testatina «La Tangentopoli napoletana». I cronisti iniziano alle nove del mattino e non finiscono mai di lavorare prima di mezzanotte. C’è chi firma anche cinque-sei pezzi al giorno.
Alla Procura di Napoli, dove arriverà Agostino Cordova succeduto a Vittorio Sbordone, non ci sono pool come a Milano. Alle indagini lavorano gruppi diversi di magistrati, accomunati da sintonie anche correntizie. Ci sono le inchieste dei pm Rosario Cantelmo e Nicola Quatrano, il fascicolo di Isabella Iaselli, ma anche il lavoro di un granitico pool di cinque magistrati: Arcibaldo Miller, Antonio D’Amato, Nunzio Fragliasso, Domenico Zeuli, Alfonso D’Avino.
Indagano sulla ricostruzione post-terremoto, sugli appalti per i parcheggi napoletani e sulla gestione della sanità nazionale. Il 20 settembre del 1993 viene arrestato Duilio Poggiolini, potente direttore generale del Servizio farmaceutico del ministero della Sanità. Gli scoprono oltre 15 miliardi di lire su un conto svizzero intestato alla moglie. Trovano denaro anche in un famoso puff in casa. Finisce in carcere anche l’ex ministro Franco De Lorenzo. Rimarrà, nelle immagini della Tangenopoli napoletana, il suo arrivo in Tribunale, con il fisico smagrito e debilitato. Verrà scarcerato per motivi di salute. Alla fine, tra i potenti parlamentari napoletani, De Lorenzo sarà l’unico a scontare una condanna definitiva in carcere. Le inchieste coinvolgono tutti i potenti campani oltre a De Lorenzo: Giulio Di Donato nel Psi, Paolo Cirino Pomicino nella Dc, diversi parlamentari socialisti. Alfredo Vito aveva giocato d’anticipo. Ammise e patteggiò, restituendo ben 5 miliardi di lire. Agli inizi del 1994, erano una ventina i filoni d’inchiesta della Tangentopoli napoletana. Mille indagati fu l’unico numero ufficiale di quella stagione napoletana nata sulla scia di Mani pulite. I fascicoli puntavano il dito su tutti gli appalti sia comunali sia regionali.
Dal 1993, l’onda delle inchieste sulle tangenti a Napoli si allargò. Una scia che andò avanti almeno per altri tre anni, nonostante le tensioni e le spaccature che si aprirono all’interno della Procura partenopea per la gestione autoritaria del procuratore capo Agostino Cordova, in continua frizione anche con gli avvocati. A Napoli, con l’elezione diretta del sindaco, dal dicembre del 1993 Antonio Bassolino guidava un’amministrazione di centrosinistra. Fu la sua prima giunta comunale, in mesi poi definiti del «rinascimento napoletano».
Ma anche a Napoli, ci fu il suicidio di un indagato famoso. Fu l’unico. Accusato addirittura di collusioni con il clan camorristico di Carmine Alfieri dalla sezione distrettuale antimafia di Napoli, il parlamentare ex Dc poi Ccd Carmine Mensorio, già direttore dell’Isef, rimase latitante per 4 mesi. Era coinvolto in una vicenda di licenze a un istituto di vigilanza privata, ritenuto vicino al clan. Ricorda il penalista Arturo Frojo, che ne fu il primo difensore ed era stato avvocato di Alfredo Vito: «Gli consigliai di presentarsi dai magistrati e fare alcune ammissioni. Non mi ascoltò, era terrorizzato dal dover finire in carcere. Cambiò difensore».
Il 16 agosto del 1996 Mensorio era sul traghetto che da Atene lo riportava in Italia. Dalla latitanza, aveva chiamato a telefono anche i cronisti del «Mattino». Nella voce agitata, l’ansia e il terrore della detenzione, la proclamazione dell’innocenza: «Ma che vogliono da me, farmi finire come Tortora o suicida come Cagliari?» Alle 11,25 di quel venerdì di agosto, giornata di ferie estive per molti, sul traghetto «Superfast» partì l’allarme di «uomo in mare». Mensorio si era gettato dal ponte principale, facendosi travolgere dalle onde e dall’elica del grande traghetto. Una morte orribile, al largo di Ancona sotto gli occhi di molti viaggiatori a bordo. Lasciò due lettere: una per la famiglia e l’altra per la Procura di Napoli. C’era anche un inquietante interrogativo: «Racconto tutto, o mi suicido?».
Fu l’anno in cui l’attiva Dda napoletana, coordinata prima da Mino Palmeri e poi da Paolo Mancuso, di pari passo con le inchieste per corruzione della Tangentopoli napoletana, avviò una raffica di indagini sugli affari dei clan della camorra e i loro rapporti con politici e imprenditori. Indagini partite dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia di peso, come Pasquale Galasso, Umberto Ammaturo e Carmine Alfieri. L’indagine più famosa viene chiamata «Maglio», vi fu imputato anche l’ex ministro Antonio Gava. Ricorrenti i nomi dei magistrati che lavorarono a questi fascicoli: Paolo Mancuso, Franco Roberti, Luigi Gay, Antonio Laudati, Gianni Melillo, Giovanni Russo. Aprirono squarci sulla camorra della provincia napoletana, legata alla mafia, collusa con politici e imprenditori. L’altra faccia della Tangentopoli napoletana.