Tangentopoli, Stefania Craxi: «Fu una falsa rivoluzione, così pm e giornali misero in fuori gioco la politica»

Tangentopoli, Stefania Craxi: «Fu una falsa rivoluzione, così pm e giornali misero in fuori gioco la politica»
di Generoso Picone
Lunedì 14 Febbraio 2022, 23:59
5 Minuti di Lettura

«La verità, presto o tardi, si è fatta strada», dice Stefania Craxi ripensando a quel 17 febbraio 1992, la data d’inizia della lunga e tormentata stagione di Mani pulite. Allora, lei, la figlia di Bettino Craxi e sorella maggiore di Bobo, aveva 31 anni ed era una produttrice televisiva impegnata in un’intensa attività. Oggi, dopo la bufera che travolse innanzitutto il padre, leader del Psi e che l’ha vista pure coinvolta in un paio di procedimenti giudiziari, è senatrice di Forza Italia, dopo essere stata deputata e sottosegretaria agli Esteri nel governo presieduto da Silvio Berlusconi tra il maggio 2008 e il novembre 2011. Ha creato la Fondazione intitolata al padre.

Stefania Craxi, il 17 febbraio 1992 è il giorno in cui, con l’arresto di Mario Chiesa, inizia la vicenda di Mani pulite e Tangentopoli. A trent’anni di distanza, come la ricorda?
«Il mio giudizio è noto e, a differenza di molti, non è cambiato seguendo le mode e le convenienze del momento. Il circo mediatico-giudiziario, che da tempo si andava preparando e che esplode nel ’92, è una falsa rivoluzione che ha messo fuori gioco la politica. Ma quello che conta a trent’anni di distanza è il giudizio che ne danno la stragrande maggioranza degli italiani. La verità, come diceva Bettino, presto o tardi si è fatta strada». 

Definire l’operazione Mani pulite come un tentativo di colpo di Stato in cui i giudici avrebbero avuto un ruolo determinante non fa correre il rischio di sottovalutare gli episodi di corruzione e concussione che pure si verificarono?
«Nessuna sottovalutazione.

Né allora, né oggi. Craxi lo disse anche in Parlamento che all’ombra del sistema del finanziamento della politica si annidavano piccole e grandi corruttele che nulla avevano a che fare con il sostegno ai partiti. Tutti. Ma Mani pulite è stato un grimaldello. Si è acceso un faro su una falla di un sistema, operando una scelta selettiva delle forze e dei soggetti da colpire e da salvare».

Quindi, che lettura dà di quella stagione?
«Va inquadrata ben oltre i confini nazionali, al di là delle comparse che hanno fatto da testa da ariete. Alcuni per insipienza, altri per opportunità, altri ancora sotto ricatto. Tante Tangentopoli esplosero in tutta Europa. Nessun complottismo, ma è un fatto che esistesse una operazione denominata “Clean Hands”. Su un sistema debole come il nostro ha avuto un effetto deflagrante».

Suo padre, Bettino Craxi, ha pagato un prezzo alto. Si è chiesta perché venne individuato come la personalità simbolo da colpire?
«Mio padre era l’emblema dell’autonomia della politica. Era scomodo, ingombrante, di certo poco avvezzo per cultura, ancor prima che per carattere, a piegarsi a interessi terzi e a lobby finanziarie. Ha pagato questo suo essere. Pensi che Enrico Cuccia, per il tramite di Massimo Pini, provò ad arruolarlo. Ne trovarono altri più obbedienti da mettere agli ordini, su tutti alcuni democratici della sinistra allo sbando dopo l’89 e pronti a tutto, anche a svendere i campioni nazionali. Ma per Craxi tutto ciò era inconcepibile».

Il tema che venne sollevato allora fu quello del finanziamento della politica. Suo padre lo fece soprattutto con il discorso del 3 luglio 1992 alle Camere, la cosiddetta chiamata di correità. In trent’anni la questione appare ancora decisamente aperta.
«Ma quale correità. Chiese una fine politica e non giudiziaria alla Prima repubblica. È un discorso verità proprio di un uomo che riconosceva le storture di un sistema bloccato, non per sua responsabilità, e che più di ogni altro aveva provato a cambiare. Che cos’altro era se non questa la Grande Riforma? E poi in quel discorso parla di Europa, dei pericoli futuri per l’Italia. Quanto al tema del finanziamento della politica, beh, diciamo che si è risolto: non c’è più alcuna politica da finanziare».

La crisi del 1992 è considerata una sorta di spartiacque nella storia italiana recente. Avrebbe chiuso il capitolo della Prima Repubblica e posto le premesse per la stagione successiva. Ma leaderismo e populismo non erano fenomeni che covavano già da prima? Le radici della crisi, insomma, non appartengono anche al sistema che si andò a sgretolarsi? 
«È con i fumi del ’92-’94 che esplode il populismo e da lì, con la distruzione della cultura dei partiti, nasce l’autoreferenzialità della politica. Le leadership di per sé non sono un male. Ci sono sempre state ma erano democratiche, rappresentavano una comunità, valori, idee e visioni». 

Quanto di ciò che si delineò allora è presente nell’Italia di oggi?
«Si è aperto un vuoto da cui ne è discesa una deriva che ha travolto tutto, partiti, politica e istituzioni. Viviamo così in una crisi continua su cui si sono innestate ripetute emergenze economiche ed ora anche sanitarie. Il risultato è l’Italia di oggi. Chieda agli italiani se preferiscono l’Italia di Craxi o questa».

Trent’anni dopo lei intravede autocritiche e ripensamenti?
«Ne vedo, eccome. Molti, a tratti pure troppi. Vedo pentimenti sinceri, nella politica, nel giornalismo e nel mondo della cultura o dello spettacolo, persone che in buona fede hanno creduto alla lotta dei buoni contro i cattivi. Però vedo anche molti pentimenti di convenienza, conversioni spericolate, contraddittorie e incoerenti. Le autocritiche, a dire il vero meno, non mancano. Ma nei paraggi di questa sinistra scarseggiano un bel po’».

© RIPRODUZIONE RISERVATA