Alzheimer, senza lo sviluppo della ricerca non c'è via d'uscita

di Silvio Garattini
Domenica 17 Febbraio 2019, 08:30
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È noto da tempo che la classica piramide demografica con molti bambini e pochi vecchi si è ormai capovolta: predominano gli anziani e si riducono i giovani. Le previsioni per il futuro prossimo sono un aumento di questo divario. Infatti nel 2017 a fronte di quasi 800 mila morti abbiamo avuto solo 400 mila nascite. L'aumento del numero di anziani è ulteriormente spinto dal fatto che ogni anno aumenta l'attesa di vita anche se in questi ultimi anni si assiste ad un rallentamento. Siamo comunque il Paese fra i più longevi del mondo: i maschi hanno alla nascita un'attesa di vita di circa 81 anni mentre le donne più fortunate (o più sagge) arrivano ormai quasi a 86 anni. Tuttavia a questo primato positivo corrisponde un primato negativo perché gli anziani italiani hanno una qualità di vita peggiore di molte altre popolazioni europee. Ciò è dovuto al fatto che con il passar degli anni si accumulano le malattie per cui da situazioni di monopatologie siamo passati a condizioni di polipatologie.

Fra queste patologie è particolarmente temuta la malattia di Alzheimer che rappresenta tuttavia solo una frazione delle demenze senili. L'aumento della popolazione anziana si accompagna inevitabilmente con una parte importante di persone che divengono disabili e comunque non-autosufficienti.

In passato il problema era meno rilevante da un punto di vista sociale perché le famiglie erano numerose e perciò in grado di assorbire la presenza di un disabile, mentre oggi le famiglie sono spesso con un solo figlio e quindi incapaci di rispondere a questa esigenza. Mentre molte organizzazioni di volontariato si occupano meritoriamente del problema, il Governo latita sotto almeno tre aspetti.

Anzitutto manca una presa di coscienza dell'esistenza del problema, in altre parole manca una strategia per rispondere ad un problema ormai largamente diffuso. Occorre stabilire delle linee di intervento in varie situazioni. Ad esempio cosa fare quando l'anziano demente è solo. È meglio inserirlo in una casa di riposo che raccoglie solo dementi o sistemarlo in case di riposo dove si trovano anche pensionati in buone condizioni? Le ricerche disponibili mostrano che in generale è meglio la seconda soluzione, ma per far questo occorre personale specializzato. Chi lo formerà e con quali programmi? Se l'anziano è invece ancora in famiglia quali sono i servizi di cui ha bisogno è come si può rispondere? Purtroppo per questi problemi l'Italia è un Paese a macchia di leopardo perché i servizi che ricevono gli anziani sono molto diversi a seconda delle Regioni in cui vivono.

In secondo luogo tutta l'area degli interventi per gli anziani è relativamente nuova e perciò è necessaria molta ricerca scientifica per sapere cosa fare identificando linee di interventi efficaci ed economiche. Nel nostro Paese la ricerca è ormai «cenerentola» con finanziamenti e numero di ricercatori fra i più bassi d'Europa. Si tratta di una ricerca che deve contribuire a capire le cause ed i meccanismi della malattia d'Alzheimer e delle demenze senili per poter poi sviluppare farmaci o trattamenti atti a prevenire o a curare queste patologie. Inoltre la ricerca deve svilupparsi anche a livello sociale ed organizzativo per sperimentare e poi attuare le migliori soluzioni. Dove sono i programmi e le risorse per queste esigenze ormai indilazionabili? Dobbiamo sempre aspettare gli altri, divenendo poi incapaci di capire ciò che è veramente utile rispetto a ciò che è solo pressione del mercato? Avremmo la possibilità di creare posti di lavoro in questo tipo di ricerca evitando che tanti giovani laureati fuggano verso lidi più accoglienti.

Infine non dimentichiamo che le demenze senili non sono sempre una inevitabile conseguenza della vecchiaia, perché sono evitabili attraverso l'attuazione di una parola che è divenuta obsoleta, prevenzione. Occorre infatti fin dall'età giovanile creare una cultura che faccia sapere come la maggior parte delle malattie siano prevenibili attraverso buoni stili di vita che tutti conosciamo ma che a causa di varie ragioni non attuiamo. In particolare sappiamo che le demenze senili sono più frequenti nello strato di popolazione a più basso livello socio/economico. La bassa scolarità è negativa mentre la continua utilizzazione delle facoltà mentali è positiva in termini di prevenzione. Un altro intervento molto utile che va fatto possibilmente tutti i giorni : bastano 30 minuti di esercizio fisico per migliorare l'irrorazione cerebrale ed evitare la degenerazione dei neuroni purché al tempo stesso si eviti la sedentarietà. Avere relazioni con gli altri, non rinchiudersi in casa, mantenere interessi sono altri comportamenti positivi. Non aumentare di peso attuando una restrizione calorica è un altro fattore che aumenta una sana longevità. Non dobbiamo perciò essere fatalisti ma favorire buoni stili di vita e tutti insieme stimolare il Governo a prendere iniziative. Il miglioramento della salute coincide con la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale ed anche con la disponibilità di risorse da impiegare per la ricerca. Va sottolineato il concetto che la ricerca non è una spesa, ma un investimento.
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