Trivulzio, il simbolo della disfatta della sanità lombarda

Trivulzio, il simbolo della disfatta della sanità lombarda
di Mario Ajello
Venerdì 10 Aprile 2020, 07:39 - Ultimo agg. 08:00
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ROMA Quanta enfasi, quanta retorica, quanta propaganda. «Milano riscopre uno dei suoi più gloriosi simboli della civiltà e della solidarietà sociale»: così è stato celebrato in questi anni, dopo le note vicende dei primi 90 con Mario Chiesa e tutto il resto, il ritrovato splendore del Pio Albergo Trivulzio, il più grande istituto geriatrico assistenziale d'Italia. Peccato soltanto che in questa storia terribile del Coronavirus modello Baggina - fatta di occultamenti sia di cartelle cliniche sia di decessi, di assurda condivisione di spazi e di bacilli tra ultraottantenni pluripatologici e ammalati di Covid 19 più o meno nascosti e mentre Fontana si metteva la mascherina un geriatra veniva cacciato perché permetteva ai medici di portarla - sia stata occultata l'evidenza. Quella di un potere politico padrone assoluto della sanità, controllore, gestore e mammasantissima sulle possibilità di vita e di morte dei cittadini lombardi, che è incappato in una nemesi di dimensioni storiche.

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Dall'eccellenza alla disfatta, dalla gloria nordista alla vergogna nazionale. Altro che modello Lombardia. Siamo alla vera e propria Baggina-Caporetto. Nella quale da marzo in poi sarebbero morti in totale, secondo i calcoli della Cisl, circa 110 persone: settanta a marzo e una quarantina in questi giorni di aprile. A causa di un mix di cattiva gestione, ansia di nascondere la polvere sotto il tappeto e indifferenza da politicismo provinciale e pre-moderno.
E in questo sprofondo con il Trivulzio e le sue vittime ci sono Alzano Lombardo con la sua «epidemia colposa» dove i malati di Coronavirus sono ricoverati insieme a tutti gli altri, dove non è stata chiusa in tempo Nembro, dove i ritardi su Codogno li ha pagati l'intero Paese e dove fuori tempo massimo si continuava ad andare a sciare invece di chiudere tutto e subito. E' un modello politico-sanitario che tracolla. Quel modello ha generato un cancro di presunta superiorità - ma è alla prova dei fatti che le presunzioni si rivelano tali - che ha finito per divorare se stesso e la vita degli altri. Ma quel che è peggio è che non è targato destra o sinistra questo scandalo Baggina - impastato di emergenza, incompetenza, scaricabarile tra Regione e Comune e solite incombenti inchieste giudiziarie - perché ci sono dentro tutti in una gestione congiunta. Il presidente Ferrara è stato nominato dalla vecchia giunta milanese di sinistra con Pisapia, il dg Calicchia risponde alla Regione leghista che ha la vera competenza sanitaria. Bilancini politicissimi (il consiglio d'indirizzo dell'ente è composto da 3 membri di nomina comunale e 2 di nomina regionale) per una gestione disastrosa. Che è il concentrato di una storia a rovescio: eccellenza? Ma quale eccellenza! Semmai una trama di scambi di potere e di localismo anti-patriottico, cioè di egoismo sbandierato come virtuosità ed efficienza che produce mala sanità e pericolosità.

LO SPECCHIO ROTTO
Si è rotto insomma lo specchio che rifletteva quella supremazia generale e anche clinica che il Nord faceva pesare, a colpi di proclami e di boria (l'opposto del vero pragmatismo) su tutto il territorio italiano e anche a danno del sistema sanitario nazionale che del mito della sanità lombarda è stato uno dei grandi pagatori sia in termini d'immagine che di sostanza.
Ora la nemesi è comprensiva del fatto che altre parti d'Italia, al Centro e al Sud, dove comunque l'emergenza è stata incomparabilmente meno tragica che nel bresciano o nel bergamasco, possono vantare di non aver sfigurato e al momento - ma la battaglia è ancora lunga - stanno reggendo l'urto. Con punte d'eccellenza come l'ospedale Cotugno di Napoli. Mentre la Baggina-Caporetto e gli altri disastri - non è «andato tutto bene» per esempio al centro di assistenza di Mediglia, una delle 700 Rsa accreditate in Regione con 64 anziani deceduti, per non dire dei 600 morti su 6000 ricoveri nella provincia bergamasca - che svelano tra l'altro l'inesistenza di quel lombardo-veneto di cui a certe latitudini ci si riempie la bocca. Perché in Veneto l'epidemia è stata tenuta almeno in parte sotto controllo, eseguendo una mappatura dei focolai, facendo un gran numero di tamponi e non ospedalizzando tutto e alla rinfusa. Così il tasso di mortalità è stato finora del 3,4 per cento e non di oltre il 13 per cento come in Lombardia: cifra spaventosa che si deve alla carenza di sorveglianza epidemiologica, al fatto che i pazienti asintomatici hanno potuto circolare liberamente, alle fabbriche chiuse in ritardo secondo la logica affaristica del guadagno che vale più della salute, e via così. La Baggina svetta allora come la punta di un iceberg. Come la quintessenza di un anti-modello. «E' stata un gran flagello questa epidemia, ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti che, figlioli miei, non ce ne liberavamo più». Così si legge nei Promessi sposi, capitolo trentottesimo. Ma in questo caso, pur essendo un genio, non aveva ragione Alessandro Manzoni. Perché il Pio Albergo Trivulzio resta come un monumento a tutto quello che l'Italia non dev'essere.

 

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