Covid, Enrico Bucci: «Contagi e restrizioni, lezione imparata a metà»

Covid, Enrico Bucci: «Contagi e restrizioni, lezione imparata a metà»
di Mariagiovanna Capone
Venerdì 21 Gennaio 2022, 07:00 - Ultimo agg. 22 Gennaio, 08:49
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Enrico Bucci, professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia, è tra gli scienziati più seguiti e apprezzati sui social ancor prima dello scoppio della pandemia, grazie alla sua dialettica chiara ed efficace. Negli ultimi tempi i suoi post si concentrano sul fornire indicazioni sulle varianti e il ritorno alla normalità.

Professore, a che punto siamo con la pandemia? Davvero presto potremmo passare alla fase endemica che dovrebbe farci sentire relativamente più al sicuro?
«Non c'è un momento esatto in cui si passa da pandemia a endemia.

Endemia significa semplicemente che ci sono focolai di un virus, che può essere anche pericolosissimo, localizzati geograficamente invece di essere diffusi in tutto il mondo. Il colera è un batterio endemico, come ebola è un virus endemico, e la malaria altro parassita endemico. Quindi l'endemia non ha a che vedere con la pericolosità del patogeno ma con la sua localizzazione. Siccome in questo momento ci sono oscillazioni di virus più o meno abbondanti in vari Paesi, possiamo desumere che il virus sta diventando endemico. Ma questo è tutto, non pensiamo che endemia sia soluzione del problema».

Fin dall'inizio ci è stato spiegato che i virus evolvono in varianti. Questo processo ha una durata?
«Si evolve fino a quando non avviene qualche evento casuale che lo fa estinguere. Ma dobbiamo tener presente che la stragrande maggioranza dei virus che erano presenti da migliaia di anni sono ancora qui con noi. Per di più, questo virus ha il vantaggio rispetto ad altri, che non è legato strettamente all'essere umano cioè si trova anche in molti animali. Quindi può andare anche in immersione per tempi lunghi in altre specie, per poi riemergere mutato nell'uomo. Non è quindi prevedibile se si estinguerà, mentre è più probabile che continui a evolversi a lungo».

Dovremmo quindi imparare a conviverci, ma la lezione del Covid è stata compresa?
«Le lezioni sono state forse comprese, nel senso che astrattamente e razionalmente alcune persone hanno capito molte cose. Ma è diverso dare seguito a quello che si è capito. La storia è maestra ma gli alunni sono scarsi».

Negli ultimi giorni è stato fortemente contestato il metodo dei conteggi utilizzato in Italia. Avremmo dovuto usarne un altro differente?
«Se vogliamo capire l'andamento di un'epidemia, dobbiamo essere sicuri che i dati che raccogliamo siano il più possibile privi di fattori confondenti e puliti: cioè statisticamente significativi. Quando vogliamo capire qualcosa degli italiani facciamo dei sondaggi, giusto? E sono organizzati in modo tale da rappresentare in un campione l'intera popolazione. Questo in Italia non è mai stato fatto nel caso del Covid, al contrario di altri Paesi tipo in Inghilterra che ha preso un numero di inglesi e li ha studiati periodicamente per capire come si sta diffondendo l'epidemia in un campione. Invece da noi vengono raccolti i dati di chi si è riusciti a intercettare ma non sia ha un campione scientifico rappresentante la popolazione. Questo è un limite identificato ed evidenziato nei primi mesi della pandemia da scienziati come il Nobel Giorgio Parisi. I dati presi alla rinfusa servono solo a capire se il sistema sanitario è sotto stress ma non sono utili dal punto di vista epidemiologico».

E potremmo utilizzare un metodo corretto anche adesso?
«Certo che sì, andrebbe fatto in maniera permanente da subito. Si sceglie un campione di tot persone selezionate su vari criteri e si chiede a loro. Non si va a caso, perché così non si avrà mai idea della prevalenza del virus ma solo di quelli testati».

Ritorneremo mai alla normalità?
«Andrebbe fatta una premessa su cosa intendiamo per normalità. Ognuno di noi ha una sua normalità, che dipende da tanti parametri personali e sociali. Se intendiamo normalità di sostentamento economico, la risposta è sì. Forse non faremo lavori come prima, ma saranno abbastanza simili. Se intendiamo normalità come ritorno ai rapporti sociali, direi che torneremo a baciarci, abbracciarci e assembrarci, ma cambieremo alcuni modi di essere e fare come avvenuto in passato. Le basterà pensare a come si pranzava e cenava cento anni fa: oggi è impensabile. Quella che definiamo normalità in fondo non esiste, la vera normalità sta nel cambiamento non la stasi».

Cioè un ossimoro: saremo uguali ma diversi...
«Certo. Ma altro punto importante è la normalità di comportamenti e condizioni che hanno creato questa pandemia e creeranno le prossime pandemie, a cui bisognerebbe di non ritornare. Cioè spostamenti e connessioni tra miliardi di persone come quelli pre-pandemia rappresentano il paradiso del virus. Più eviteremo di pensarci e peggio sarà».

Cosa dovremmo fare allora?
«Dopo l'11 settembre ci furono controlli serrati per la sicurezza, ci sembrava eccessivo e costrittivo. Forse sarebbe il caso di pensare a controlli sanitari diversi, pensare a modi diversi di viaggiare, a sistemi diversi di controllo delle merci... Insomma, se saremo furbi dovremmo adattare alcune cose. Ma se, come penso, saremo semplicemente pigri ed egoisti, ci prenderemo un'altra lezione». 

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