Variante Delta, ipotesi terza dose del vaccino: gli effetti su persone deboli in una maxi-ricerca norvegese

Vaccino, gli effetti della terza dose in una maxi-ricerca norvegese: 16.000 persone coinvolte
Vaccino, gli effetti della terza dose in una maxi-ricerca norvegese: 16.000 persone coinvolte
di Cristiana Mangani
Mercoledì 14 Luglio 2021, 10:03 - Ultimo agg. 19 Febbraio, 23:40
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L'eventualità che si debba usare una terza dose di vaccino per tentare di contrastare la diffusione della variante Delta, sta dando il via agli studi e alle ricerche sui possibili effetti. In Norvegia migliaia di cittadini hanno aderito all'indagine scientifica avviata nel paese, proprio sugli effetti delle terza dose negli immunodepressi.

Al momento hanno risposto più di 16.000 persone che hanno un sistema immunitario indebolito, proprio perché è su questi che il Covid ha gli effetti più gravi, e si vuole verificare se una terza dose possa aiutare a creare una barriera più efficace contro il virus. Infatti, molti dei partecipanti alla ricerca non hanno avuto grandi risultati con le prime due dosi di vaccino.

Terza dose del vaccino, la ricerca

 

Lo studio è condotto dall'ospedale universitario di Oslo e finanziato, tra gli altri, dall'alleanza sui vaccini Cepi (The Coalition for Epidemic Preparedness Innovations) che ha contribuito con 26 milioni di Nok (le corone norvegesi). Il progetto - spiega la Cepi - mira a reclutare almeno 6090 pazienti e 10.000 partecipanti sani che finora hanno ricevuto due dosi. «Anche se ora ci sono diversi vaccini sicuri ed efficienti contro il Covid-19, è imperativo che la ricerca e lo sviluppo di questi continuino -  scrive Richard Hatchett, direttore del Cepi, in una nota alle agenzie di stampa norvegesi -.  Abbiamo bisogno di sapere come funzionano i vaccini nelle persone con un sistema immunitario indebolito e se hanno bisogno di tre dosi invece di due per ottenere una protezione immunitaria sufficiente».

 I vaccini che verranno testati sono quelli che fanno parte del programma di vaccinazione norvegese, ovvero Pfizer-Biontech e Moderna. L'obiettivo principale è trovare la risposta immunitaria fornita per questo gruppo. I ricercatori desiderano anche scoprire come i farmaci immunosoppressori possano influenzare la risposta immunitaria dopo la vaccinazione e in che modo l'età, il sesso e lo sviluppo delle cellule T influiscano sulla risposta. L'effetto dei vaccini Covid finora non è stato testato sistematicamente su persone con sistema immunitario indebolito, che sono, poi, le persone che hanno il rischio più elevato di sviluppare una grave malattia in conseguenza al virus.

Secondo il Cepi, sono milioni in tutto il mondo le persone che hanno un sistema immunitario indebolito, a causa di condizioni sottostanti o di trattamenti medici utilizzati dopo trapianti di organi.

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Anche in Italia il dibattito sulla dose di richiamo si è sviluppato nei giorni scorsi. «Se fosse necessario siamo pronti», ha dichiarato il Commissario straordinario, generale Paolo Figliuolo. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha, però, puntato il dito contro quei Paesi che stanno pensando alla terza dose quando ce ne sono altri che non riescono neppure a immunizzare gli operatori sanitari e la popolazione più vulnerabile.

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Alcuni giorni fa Pfizer Biontech ha annunciato che ha chiesto alla Food and Drug Administration (Fda) e all’Agenzia europea del Farmaco (Ema) l’autorizzazione per la somministrazione della terza dose di vaccino  a 6-12 mesi dalla seconda, per mantenere alto il livello di anticorpi contro la malattia, che si abbassa dopo 6-12 mesi. Il punto cruciale però è: c’è davvero bisogno di una terza dose? I due enti regolatori hanno frenato sul richiamo spiegando che al momento la popolazione che ha concluso il ciclo vaccinale non ne ha bisogno, neppure contro la variante Delta. «Questo non vuol dire che le cose non possano cambiare. Prima o poi potremmo aver bisogno di un “booster” per tutti o per alcuni gruppi selezionati, come gli anziani o le persone con patologie preesistenti» ha commentato Anthony Fauci, direttore dell’Istituto nazionale per la ricerca sulle malattie infettive degli Stati Uniti. In genere infatti l’immunità indotta da vaccini dura anni e non mesi, ma per il Covid è trascorso per ora ancora poco tempo per avere certezze.

«Una eventuale terza dose di vaccino contro Covid-19 potrebbe essere fatta per due motivi – ha, poi, chiarito Sergio Abrignani, immunologo dell’Università degli Studi di Milano e membro del Cts -: quando c‘è evidenza che la memoria immunologica indotta dalle due dosi di vaccino stia decadendo a un livello tale per cui a un certo punto i vaccinati non sono più protetti e sono esposti alla reinfezione oppure perché emerge una variante più diffusiva di quelle in circolo che non è più ben riconosciuta dai vaccini e le persone, pur avendo completato il ciclo vaccinale, sono esposte a forme severe di malattia. I due motivi possono essere contemporanei». I dati scientifici oggi conosciuti non giustificano però la necessità della terza dose, neppure contro la variante Delta. I dati israeliani ci dicono che dopo due dosi di vaccino Pfizer scende di tanto, dal 94% al 64%, la protezione da forme lievi o asintomatiche, anche solo pochi mesi dopo la seconda iniezione. Vuol dire che un terzo dei vaccinati si possono reinfettare, ma in forma lieve. La protezione dalle forme severe scende invece dal 97% al 94%, quindi il calo è marginale.

 

Diverso il discorso per gli immunodepressi, sui quali sta lavorando la Norvegia. Sono infatti persone che hanno bisogno di più dosi di richiamo per montare una risposta immunitaria appena accettabile. Proprio in queste ore il ministero della Sanità israeliano ha dato istruzione di somministrare una terza dose di vaccino Pfizer (due mesi dopo la seconda) agli immunodepressi per proteggerli dalla malattia grave in caso di contagio. La terza dose potrà essere somministrata inoltre a chi sia stato o sia ancora sottoposto a cure oncologiche di vario genere.

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