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Vaccini Covid in ritardo, l'appello di Garattini: «Sono farmaci salva-vita, gli Stati tolgano i brevetti»

di Lucilla Vazza
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 25 Gennaio 2021, 12:08 - Ultimo agg. : 15:05
5 Minuti di Lettura

«Il caos Pfizer e ora anche AstraZeneca era ampiamente prevedibile. Non possiamo ragionare con la logica di Amazon: clic, ordino e mi arriva il vaccino. Non funziona così. Sono solo i primi di altri possibili intoppi produttivi, logistici o di altra natura. Ancora una volta è mancata la programmazione, una visione scientifica del problema. Da noi servono 120 milioni di dosi e se anche queste aziende rispettassero le consegne pattuite, avremmo vaccini per circa 38 milioni di italiani entro la fine dell'anno, il che non ci permette di raggiungere l'immunità di gregge. Bisogna cercare in fretta altre soluzioni, fare altri accordi, moltiplicare anche da noi le sperimentazioni già in atto per accelerare le approvazioni dei vaccini migliori. Produrre vaccini è complicatissimo e ragionare come fossero banchi a rotelle è sbagliato».

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Dall'alto dei suoi 92 anni, il fondatore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, Silvio Garattini, sul pasticciaccio dei vaccini ne ha per tutti. 

«Come Europa e quindi come Italia ci siamo mossi tardi, altrove a fine febbraio si è iniziato a lavorare, basti pensare che l'accordo Ue per il vaccino Moderna (finanziato dal governo Usa) è del 24 novembre». 

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Professore perché ci troviamo in questa situazione, con industrie farmaceutiche che promettono miliardi di dosi e poi non riescono (a non voler pensar male) a onorare gli impegni con gli Stati?
«Perché manca una cultura scientifica in grado di valorizzare i temi di politica sanitaria. Da noi la ricerca è stata considerata per anni una spesa e non un investimento, oggi ne paghiamo le conseguenze. Prevale il pressapochismo. Lo abbiamo visto con la carenza dei vaccini antinfluenzali, con il tracciamento che è saltato, con la app Immuni che non funziona, manca la programmazione. Sui vaccini ci siamo mossi tardi ed è stata sottovalutata la complessità della produzione e della logistica. Si è agito come se si trattasse di mascherine o di banchi a rotelle. Le polemiche non servono, cerchiamo di risolvere la situazione».

Serviranno le azioni legali che l'Ue sta avviando contro Pfizer e AstraZeneca?
«Non serviranno alla popolazione. Un'azienda può attaccarsi a cavilli o avere mille ragioni valide per non riuscire a produrre quanto concordato. Per questo vanno preparati più scenari. Le azioni legali vanno bene per eventuali risarcimenti, ma sono cose che vanno per le lunghe e non risolvono il problema della pandemia. Se vogliamo immunizzare la popolazione bisogna trovare nuove soluzioni».

Cosa bisognava fare e cosa bisogna fare eventualmente oggi?
«Va messo in piedi un gruppo di lavoro italiano o europeo di persone competenti, che vada in giro per il mondo a vedere cosa succede a 360 gradi sui vaccini e portare da noi tutto quello che può servire. Lo stesso discorso va fatto sulle cure, come gli anticorpi monoclonali, va fatta una strategia e non aspettare l'ultimo minuto. Non sono aspetti che possono essere messi in mano alla politica, servono professionalità precise che noi abbiamo. Alla politica bisogna dare opzioni su cui ragionare, ripeto, i farmaci non sono oggetti che si ordinano sul catalogo e poi finisce lì».

Ma non bastano le commissioni e le agenzie regolatorie come Aifa ed Ema?
«Ma è un altro mestiere. Le agenzie regolatorie approvano i farmaci. Noi dobbiamo mandare scienziati in esplorazione, capaci guardare fuori e di individuare strade nuove. Ci sono decine di sperimentazioni promettenti, bisogna andare a capire di che si tratta, se ci sono possibilità di accordi. Anche con Cina e Russia. Fino a poco tempo fa era improbabile che venissero presi in considerazione, perché Russia e Cina non condividevano tutti i dati. Ma anche lì, bisognava lavorare con loro da prima, pensare a piccole o grandi sperimentazioni da noi. Anche in Italia abbiamo due vaccini in fase di trial, ora vanno moltiplicati i test e coinvolti altri centri di ricerca per accelerare i tempi. Ci servono 120 milioni di dosi, bisogna aprirsi per non rimanere vincolati a poche opzioni. Non è ancora troppo tardi per rimediare».

Perché non si chiede, o alle brutte impone, alle aziende di cedere il brevetto e consentire ad altri di produrre il vaccino?
«Lo diciamo da anni, è stato così anche per il farmaco anti epatite C. Se ci sono ragioni importanti di salute pubblica gli Stati possono chiedere o pretendere la licenza del farmaco per produrlo in grosse quantità. L'Italia, l'Europa possono chiederlo. In un momento di grandi difficoltà bisognerebbe avere il coraggio di abolire i brevetti sui farmaci salva-vita come i vaccini».

Ma chi lo deve decidere?
«L'Unione Europea ha tutto il potere per farlo, basta avere la volontà di farlo. Non dimentichiamo che la pandemia è un problema mondiale, se noi siamo in difficoltà, figuriamoci i Paesi a basso reddito. Abbiamo il problema delle varianti, se non facciamo le cose alla svelta rischiamo che qualche variante non sia più suscettibile al vaccino».

Non teme che la politica stia temporeggiando, perché ci sono altri vaccini in arrivo?
«È così. Si aspetta sempre che arrivi qualcuno a risolvere le situazioni».

Professore, un consiglio per le istituzioni e uno per la popolazione?
«Alle istituzioni dico di chiamare a raccolta un gruppo di esperti che guardi alle esperienze internazionali. Bisogna fare accordi per produrre indipendentemente i vaccini da noi, anche con il ricorso alla licenza obbligatoria. Alla popolazione dico di continuare con le precauzioni che conosciamo, bisogna avere pazienza. Cose che sanno tutti ma che non tutti fanno».

Professore ha fatto il vaccino?
«Sì e ho fatto anche la seconda dose, da domani sarò immunizzato».

Una buona notizia. È stato doloroso, ha avuto problemi?
«Assolutamente no, acqua fresca».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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