Scuola, con l’autonomia differenziata il Sud perde 1,4 miliardi

Scuola, con l’autonomia differenziata il Sud perde 1,4 miliardi
di Marco Esposito
Venerdì 4 Novembre 2022, 23:57 - Ultimo agg. 5 Novembre, 20:02
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È pronto. Il testo Calderoli per dare il via all’autonomia differenziata contiene sette articoli e circola di telefonino in telefonino dal Veneto, la Regione che più di tutte spinge per acquisire nuovi poteri e, soprattutto, soldi. «Prepariamoci a combattere», ha detto ieri il presidente della Campania Vincenzo De Luca: «Bisogna combattere questo modo truffaldino che continua a deprimere il Mezzogiorno e la domanda di servizi sociali e di cultura che da esso proviene». E proprio sui soldi, grazie alle bozze, è possibile fare qualche primo conto concreto sulla materia di gran lunga più importante fra le 23 in discussione: l’istruzione. 

Su un tema così delicato per la vita pubblica l’argomento centrale è l’opportunità o meno di frammentare un’istituzione nazionale. Ma anche l’impatto finanziario ha il suo peso: lo Stato spende 50 miliardi, di cui 35 regionalizzati. I risultati delle simulazioni non sono incoraggianti per il Mezzogiorno: serve un taglio di 1,4 miliardi di euro per portare la spesa attuale al costo standard, inteso come media nazionale. 

Un taglio, peraltro, del tutto immeritato perché è vero che la scuola nel Mezzogiorno è molto più costosa sia in rapporto agli abitanti sia, come è più corretto conteggiare, in rapporto agli studenti. Ma questo apparente “spreco” è conseguenza diretta di una situazione economica e sociale ben nota che porta gli insegnanti giovani a lavorare al Nord e quelli anziani a concentrarsi al Sud. E, visto che lo stipendio di un prof cresce in base agli anni di anzianità, ecco che a parità di corpo docente la spesa al Sud è notevolmente più alta.

In Lombardia e in Veneto la spesa statale per studente è intorno ai 3.800 euro all’anno mentre in Campania si sale a 4.500, in Sicilia quasi a 4.900 e in Basilicata arriva a 5.600. La media italiana, lo standard, è di 4.346 euro e applicando tale livello a tutte le Regioni si dovrebbero appunto spostare da Sud a Nord risorse per la scuola pari a 1,4 miliardi.

Che la gestione diretta della scuola sia il principale obiettivo di Attilio Fontana in Lombardia e di Luca Zaia in Veneto non è un mistero. Roberto Calderoli nella sua bozza di legge non prevede limiti alle materie, anzi: l’istruzione è esplicitamente citata. Prima del trasferimento di competenze però lo Stato dovrà approvare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) operazione che al Sud potrebbe portare un incremento del tempo pieno e delle palestre. Nella legge c’è un anno di tempo.

A quel punto, in pratica con l’anno scolastico 2024/2025, la scuola potrà essere assegnata alle Regioni che lo chiederanno. Si ipotizzi che siano soltanto Lombardia e Veneto: lo Stato il primo anno staccherebbe un assegno di 5,1 miliardi in Lombardia (3.745 euro per studente) e uno da 2,6 miliardi in Veneto (3.838 euro per studente) per gestire le scuole al suo posto. Cioè esattamente quanto spende oggi in quei territori per l’istruzione scolastica. Per le altre Regioni all’inizio non cambia nulla. Tuttavia dalla spesa “storica”, prevede la legge, a regime si deve passare alla spesa “standard” chiesta a gran voce da Lombardia e Veneto perché sanno che il loro livello attuale è il più basso d’Italia. 

Nella narrazione lombardo-veneta, con lo standard si vanno a colpire le inefficienze di chi spende troppo, cioè il Sud. L’attuale standard è di 4.346 euro per studente per cui alla Lombardia dovrebbero andare 820 milioni di bonus e al Veneto 340 milioni. Per le altre Regioni l’impatto non sarà neutrale perché gli oneri complessivi in base all’articolo 7 della legge devono restare immutati: tagli in vista quindi nei territori sopra lo standard. Comprese le Regioni autonome Sicilia e Sardegna.

Il punto è che il Sud, che pure ha da farsi perdonare in quanto a capacità di gestione della cosa pubblica, sulla scuola non ha colpe per l’eccesso di oneri. È infatti noto che i giovani meridionali, per la carenza di lavoro sul proprio territorio, partecipano in largo numero ai concorsi nelle scuole e trovano posto quasi sempre in cattedre lontane dalla propria residenza. Dopo alcuni anni, però, tornano nel territorio d’origine. Tale meccanismo è neutrale dal punto di vista della contabilità pubblica finché la scuola resta una grande istituzione nazionale, mentre diventa un’anomalia da correggere in caso di spezzatino. La “colpa” dei divari di costo si spiega con il fatto che la paga di un docente è molto bassa nei primi anni e poi gradualmente cresce fino a raddoppiare a fine carriera l’importo iniziale. Gli insegnanti che lavorano al Sud, quindi, costano di più per automatismi contrattuali di cui non è responsabile nessuna Regione, nessun istituto scolastico né, ovviamente, il singolo prof. 

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Il passaggio forzato alla regionalizzazione, insomma, impatta su un sistema con profonde divergenze cristallizzatesi nei decenni. Eppure in Veneto già scalpitano e non a caso nel 2018 la leghista Erika Stefani, da ministra delle Autonomie, aveva pubblicato sul sito del governo una tabella con fonte Ragioneria generale dello Stato per dimostrare quanto la spesa procapite per l’istruzione fosse più bassa in Lombardia e in Veneto. E che quindi le due Regioni fossero legittimate a chiedere di più. Un errore tecnico non casuale. 

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