La peste del proselitismo che impedisce il dialogo

di Massimo Introvigne
Domenica 23 Giugno 2019, 08:52
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Il discorso del 21 giugno di Papa Francesco alla Facoltà di Teologia di Posillipo sarà ricordato come uno dei passaggi storici del suo pontificato. Anche per il suo successore, chiunque sia e quando sarà, ignorare il discorso di Posillipo sarà difficile. Potrà assumerlo o correggerlo. Ma non potrà non tenerne conto.

Il rischio, nel leggere il discorso, è di passare a lato dell’essenziale. Chi legge Papa Francesco, ormai in modo francamente stucchevole, sempre e solo nell’ottica della politica italiana, dirà che il Pontefice ha mobilitato anche la teologia contro Salvini, invitando i teologi a ripensare la loro presentazione della fede mettendo al primo posto l’accoglienza e smorzando le avversioni preconcette contro i musulmani. Certamente questi temi ci sono, ma il Papa li ripete tutte le settimane e non farebbero notizia. 

Tutti sanno che Francesco non ha modificato la dottrina della Chiesa su temi come l’aborto – quando ne parla, si esprime in modo durissimo paragonando gli aborti a omicidi commissionati a un sicario – ma non ritiene, a differenza del suo predecessore Benedetto XVI, che vita e famiglia debbano avere la precedenza nell’annuncio quotidiano rispetto alla solidarietà e all’accoglienza, o che la Chiesa debba impegnarsi in “guerre culturali”. Ma questo è risaputo, e Posillipo – dove in un lunghissimo discorso che percorre tutta la teologia la parola “famiglia” ricorre una volta sola, e riferita alla grande “famiglia umana” di cui tutti siamo parte – non ci avrebbe detto nulla di nuovo.

A causa delle mutate priorità, Francesco è inviso ai cosiddetti “tradizionalisti”. Ma siccome nella sostanza la dottrina non cambia, è criticato anche da “progressisti” secondo cui la riforma di Francesco sarebbe puramente cosmetica. Questi ultimi sono ora spiazzati dal discorso di Posillipo, che innova su qualche cosa che per una religione è molto più radicale delle priorità politiche e della stessa morale sessuale: le pretese di verità delle diverse religioni e la loro coesistenza.

Già in passato il Papa aveva criticato il “proselitismo”. I suoi critici conservatori avevano inteso, scandalizzandosi, che Francesco volesse porre fine a qualunque attività missionaria della Chiesa. Dimostravano una notevole ignoranza, perché già Paolo VI e Benedetto XVI avevano sottolineato la differenza fra missione – che annuncia la fede nel rispetto dell’altro e della sua religione, senza demonizzarla e senza cercare di convertirlo a tutti i costi – e proselitismo, che pretende di convertire aggredendo la fede altrui e liquidandola come semplice eresia o menzogna, se non come opera del Demonio.

A Posillipo il Papa però è andato oltre. Ha definito il proselitismo non solo un errore ma una “peste”, cioè la peggiore delle malattie. Ha rivendicato con forza il documento firmato con i musulmani ad Abu Dhabi, dove si afferma che la presenza di tante diverse religioni sulla Terra è voluta da Dio. La Sala Stampa, o la Curia a Roma, avevano poi corretto “voluta” in “permessa”, il che è certo importante sul piano squisitamente dottrinale, ma sembra fare parte per il Papa di quelle “sottigliezze dottrinali” di cui Francesco si cura poco e che prende in giro volentieri. Lo ha fatto anche a Posillipo, parlando male di quel tipo di “apologetica” per cui “il cattolicesimo ha sempre ragione”.

Si tratta ora di comprendere la profondità della svolta e anche i suoi problemi. Dire che il cattolicesimo non ha “sempre ragione” significa dire che qualche volta a torto, e possono avere ragione altri. Significa posizionare la Chiesa Cattolica fra le religioni, poche in verità, disposte ad ammettere che nella pluralità immensa delle credenze e delle fedi ci sono ricchezze – e persone che “hanno ragione” – anche fuori del nostro recinto. Lo strumento di lavoro predisposto per il prossimo Sinodo sull’Amazzonia, non a caso criticassimo dai “tradizionalisti”, va nella stessa direzione, sostenendo che ci sono – certo insieme ad aspetti meno commendevoli – ricchezze che abbiamo perduto e da cui possiamo imparare anche nelle spiritualità degli indigeni amazzonici, evidentemente molto lontane dal cristianesimo. 

Gli storici della teologia potranno trovare prodromi di queste posizioni nei documenti del Vaticano II, ma non potranno negare che siamo di fronte a un’innovazione e ad accenti molti diversi da quelli di Benedetto XVI. Questo apre almeno due problemi, il primo affrontato nel discorso di Napoli e il secondo no.

Primo, Francesco mette in conto che dopo Posillipo cresceranno le accuse di “eresia” da parte di “tradizionalisti”, compreso qualche cardinale e vescovo, che diranno che ha rinnegato la “Tradizione”. A costoro il Papa risponde in anticipo che la vera Tradizione cattolica “non è un museo”, è una “tradizione vivente” che alla fine nella Chiesa spetta al Pontefice Romano definire per il nostro tempo, “rivisitandola” per distinguere quanto è essenziale da quanto, pure presentato come tradizionale, in realtà “è stato infedele” al Vangelo e può, o forse deve, essere non solo criticato ma contraddetto e sovvertito. A chi gli obietta “ma stai cambiando insegnamenti tradizionali”, Francesco da Posillipo risponde, “Sì, sono il Papa e lo posso e lo devo fare”.

In secondo luogo – e qui la riposta è ancora da elaborare – si apre una stagione di coesistenza non facile fra dialogo e condanna del proselitismo. La Chiesa rinuncia al proselitismo: è un suo diritto e secondo Francesco un suo dovere. Ma con chi, esattamente, vuole dialogare? Il Papa non può non sapere che – escludendo l’ala più liberale del protestantesimo e dell’ebraismo e qualche intellettuale di altre fedi piuttosto isolato – la maggioranza delle religioni mondiali pratica quello che chiama proselitismo. Per giunta le religioni “proselitistiche” crescono e quelle non “proselitistiche” continuano a perdere membri. Se la Chiesa Cattolica vuole dialogare solo con chi non fa proselitismo, rischia di escludere dal dialogo la parte maggioritaria di chi nel mondo si dice credente. Sembra che non sia questa la posizione di Francesco: è stato il primo Pontefice a visitare una Chiesa pentecostale, a Caserta nel 2014, e a ricevere in Vaticano, lo scorso marzo, il “presidente, profeta e rivelatore” della Chiesa Mormone. Quando un sociologo pensa al proselitismo, pensa anzitutto ai mormoni e ai pentecostali, anche se non solo a loro.

Chi fa proselitismo chiede anzitutto libertà religiosa, e quando parla con la Chiesa Cattolica chiede di essere sostenuto nelle battaglie contro regimi che vietano il proselitismo per legge, in primo luogo Russia e Cina. Difendendo il controverso accordo con la Cina, storici, teologi e giornalisti vicinissimi a papa Francesco hanno scritto che il modello della libertà religiosa è occidentale, non universale, e va superato, giustificando le limitazioni al proselitismo di Xi Jinping (e di Putin). Questo sta tra l’altro determinando difficoltà sempre più evidenti fra Santa Sede e amministrazione americana, che si presenta invece come paladina di una libertà religiosa che comprende la libertà di proselitismo per tutti. Lo stesso giorno del discorso di Posillipo, gli Stati Uniti hanno pubblicato il loro voluminoso rapporto annuale sulla libertà religiosa, che critica apertamente il Vaticano per gli accordi con la Cina. La critica di Francesco al proselitismo è teologica e interna alla Chiesa Cattolica o è qualche cosa che i cattolici vogliono imporre alle altre religioni, fino a schierarsi con i regimi non democratici che limitano il proselitismo per legge? Se la risposta fosse positiva, non c’è il rischio che la critica al proselitismo finisca per impedire, o limitare a pochi interlocutori che nel mondo delle religioni oggi non sono neppure i più importanti, proprio quel dialogo che in tesi vorrebbe promuovere?
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