Matteo Zuppi presidente dei vescovi italiani: «La svolta della Chiesa al Sud può cambiare volto al Paese»

Matteo Zuppi presidente dei vescovi italiani: «La svolta della Chiesa al Sud può cambiare volto al Paese»
di Angelo Scelzo
Domenica 26 Giugno 2022, 08:00 - Ultimo agg. 27 Giugno, 17:04
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«Con Draghi, quando lo vedrò, sarà un discorso a tutto campo tra la guerra, la minaccia di un autunno caldo e un dopo-pandemia che chissà se si può chiamare già tale. Ma ci sarà un tema a parte e riguarderà il Mezzogiorno. Non si può parlare di unità e compattezza da richiedere al Paese se il Sud continuerà a svuotarsi e a consacrarsi terra d'emigrazione anche al tempo della globalizzazione. Abbiamo il dovere di non accettare l'intollerabile e di prevenire situazioni di vero e proprio pericolo».

In 70 anni di vita (è nata nel 1952, fortemente voluta dall'allora cardinale di Genova Giuseppe Siri, il primo anche a presiederla), la Conferenza episcopale italiana non ha mai avuto un presidente nato a sud di Roma. Unica parziale eccezione, per un periodo limitato, come pro-presidente, l'arcivescovo di Palermo, Salvatore Pappalardo che sostituì il cardinale Ugo Poletti.

Non solo per questo, Matteo Zuppi, arcivescovo-cardinale di Bologna, romano, cinque fratelli, il padre giornalista, eletto il 24 maggio a capo della Cei, è la persona giusta per parlare di chiesa e, in particolare della chiesa nel Mezzogiorno, quasi un capitolo a sé nella vicenda ecclesiale italiana.

Chiamandolo alla guida della Cei, e nominandolo di fatto sul campo una telefonata di assenso al presidente uscente, il cardinale Bassetti che aveva fatto avere in Vaticano la terna espressa dal voto dei vescovi in assemblea - Papa Francesco ha chiaramente indicato la via di una svolta alla chiesa italiana. Parroco a Trastevere, e poi nella borgata di Torre Angela, i poveri e gli ultimi della fila chiamati per nome, conosciuti uno a uno e da sempre parte attiva del suo entourage più stretto e ascoltato, mediatore di pace sul terreno sua la firma ai negoziati per la riconciliazione in Mozambico nel 1992 - e non solo al tavolo delle trattative dove pure si è trovato dalla stessa parte di Nelson Mandela e Desmond Tutu (e sul fronte opposto, spesso guerriglieri rintanati nelle foreste).

Quando si parla di svolta, da ogni lato, il pensiero corre veloce in direzione del Mezzogiorno, l'agenda sempre aperta delle emergenze nazionali. E tuttavia sempre con la nota a margine di qualche occasione prossima ventura. 

C'è un dato di fatto da cui ripartire e che segna la nuova strada all'impegno sociale della chiesa nel Sud: la svolta del Recovery plan, la vernice fresca da spalmare su quella pietra miliare ormai in disuso della vecchia Questione meridionale, un titolo ormai consegnato agli archivi delle patiche inevase e perdute.
«Recovery plan, ma non solo, afferma il cardinale, perché questa sorta di piano Marshall del terzo millennio, viene a coincidere con il cambio di scena che il tramonto della vecchia Questione ha ormai innescato. Siamo di fronte a una dimensione totalmente diversa, e ciò che emerge ora è piuttosto la Questione mediterranea, non una variante in corso d'opera, ma il superamento di una visione che non dava spazio e non riconosceva il ruolo di un'area in cui ritornano attive le radici della nostra cultura. Perché di questo si tratta: di un Mediterraneo che ritorna protagonista, come Mare nostrum, e concorre sempre più alla nascita di un nuovo ordine internazionale, nel quale proprio il Sud d'Italia diventa l'asse centrale di cambiamenti d'epoca».

Un cambio di scena reale o solo consolatorio?
«Non possiamo vivere lasciandoci consumare dalle sconfitte e dalle amarezze. E guai se il Mezzogiorno non sentisse anche da solo l'esigenza di cambiare passo. Un salto è necessario e dà conforto il fatto che le energie, le intelligenze, la forza che sta dietro a ogni cambiamento non si è piegata neppure di fronte agli assalti della malavita organizzata e delle consorterie del male che hanno avvelenato la vita delle popolazioni del Sud.

Ma non basta e non è più tempo di guardarsi solo alle spalle e impegnarsi per obiettivi di corto respiro. Il qui e ora del Mezzogiorno ci indica la strada della visione, oltre che del coraggio. Forse anche Napoli si è accorta poco di quel che sta avvenendo e in parte è già avvenuto non alle sue spalle, ma come un consapevole versamento sul conto della sua speranza. Nel bacino del Mediterraneo Napoli sta ritrovando, in maniera sempre evidente, un ruolo che potrebbe non essere diverso, a breve, da quello dell'antica capitale. Napoli e non solo, vorrei dire, poiché il segno dell'accoglienza è riuscito a mobilitare in quest'area non solo energie operative per l'assistenza e il conforto a profughi e rifugiati, ma anche un movimento culturale che ha impegnato a fondo città come Palermo, Bari, e ultimamente Firenze, tutte sedi di università e centri studi che hanno così avuto materia per misurare sul concreto l'ampiezza di un bacino di solidarietà che costruisce legami e ponti nuovi soprattutto con i Paesi del Maghreb. È il senso del Mare nostrum che ritorna a essere non una formula ma un progetto di futuro e quindi di integrazione e di sviluppo tra i popoli».

È un attivo da mettere in conto alla chiesa?
«Anche e forse soprattutto nel Sud, la Chiesa sconta i suoi molti ritardi. Ma questa riscoperta le appartiene in pieno. E quanto a Napoli, occorre ricordare che proprio per questo si mosse, tre anni fa, in una caldissima giornata di luglio, per una semplice partecipazione a un convegno di studi papa Francesco. Il titolo del convegno parlava di teologia, ma nessun incontro come quello, con il seguito di altri a Bari, a Palermo, Firenze e il sostegno di documenti e pronunciamenti a livello internazionale, come la firma dello storico Documento sulla Fratellanza umana, firmato tre anni fa, ad Abu Dhabi dal Papa e dal Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyb, ha fatto capire quanto può essere lunga e concreta la strada imboccata. Siamo di fronte anche a un processo di pace, e Dio sa, pensando a ciò che avviene nel cuore dell'Europa, quanto il mondo ne abbia bisogno». 

Il cardinale Zuppi parla attraversando le strade e i belvederi del Vaticano. Sembra quasi un turista incuriosito, e si vede che la frequentazione, anche ora da porporato, non è proprio assidua. Non è uomo di curia, oltre quella di Bologna, ma anche lì a modo suo, come un vescovo di strada, se l'espressione non fosse, giustamente, caduta in disuso per un eccesso di inconsistenza. «Che cosa dovrei essere se non un vescovo che vive, come tutta la Chiesa, la missione della strada, della vicinanza concreta per parlare a tutti e raggiungere il cuore di tutti?».

Il neo presidente della Cei è un interlocutore privilegiato perché mai come adesso i problemi della Chiesa e della società del Sud sono problemi della Chiesa italiana. «Il Paese non crescerà se non insieme» è stato il leit-motiv di tutta la serie di documenti con i quali essa ha affrontato la Questione meridionale. Una questione non soltanto sociale, ma interna alla stessa chiesa, dove in termini diversi, si sono riprodotti divari o vere e proprie incongruenze. Non a caso caposaldo del lungo capitolo dei pronunciamenti sulla realtà meridionale, resta la storica Lettera collettiva dei Vescovi del Mezzogiorno del 25 gennaio 1948, poi ripresa in più occasioni e rilanciata a livello nazionale. È stata poi appena ripubblicata, a 40 anni di distanza, la Lettera collegiale dei vescovi della Campania, Per amore del mio popolo non tacerò, un grido forte e profetico contro la camorra, protagonista il vescovo di Acerra, monsignor Riboldi del quale ricorre proprio quest'anno il centenario della nascita- ripreso dalla Nota pastorale del 1991: Educare alla legalità.

«Si tratta di atti importanti che danno conto di quale grande investimento culturale, sociale, oltre cha naturalmente religioso, sia stato il Sud per la Chiesa. Ma accanto ai documenti, ecco le testimonianze, le visite dei papi nel Mezzogiorno, con al centro Napoli, l'unica metropoli italiana visitata dagli ultimi tre papi, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. E soprattutto la scia dei martiri, don Diana, don Puglisi, il giudice-ragazzino Rosario Livatino. È il Sud in cui risuona il grido biblico di Giovanni Paolo II ad Agrigento contro i mafiosi o la scomunica di Papa Francesco a Cassano allo Jonio, dopo l'uccisione del piccolo Cocò, o ancora la condanna pronunciata a Napoli contro la corruzione che spuzza. Papi, e senza contare i vescovi, non solo di ultima generazione, come Battaglia a Napoli e Lorefice a Palermo, poiché non può essere dimenticato il forte impegno, giorno per giorno sul territorio, di pastori come Pappalardo a Palermo e Sepe a Napoli, che non hanno dato tregua, con le proprie armi e con una pastorale coraggiosa, allo strapotere delle mafie e camorre». 

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Più che al cammino compiuto ognuno di questi atti fa pensare ancora oggi alla strada da compiere.
«C'è un Sud che è uscito di scena, allo stesso modo del panorama ormai azzerato dei tentativi di un'industrializzazione che ha fatto in tempo a creare solo illusioni e i guasti di un ambiente gravemente manomesso. Non c'è più il sud agricolo, ma una società terziarizzata a urbanizzata, con uno sviluppo e forme di modernità diverse da regione a regione o addirittura da zona a zona. Non vanno trascurate le particolarissime problematiche delle aree interne, i paesi dell'osso, lungo la dorsale appenninica devastata da molti terremoti, tra cui quello rovinoso dell'Ottanta in Campania e Basilicata. I vescovi di queste zone hanno giustamente rappresentato i gravissimi problemi dell'abbandono e dello spopolamento in un documento importante, consegnato anche al Presidente della Repubblica, Mattarella, e dal titolo significativo: Mezzanotte a Mezzogiorno? Anche la chiesa abita un paesaggio e una realtà diversa, e nella quale deve in qualche ricercare il suo posto, poiché neppure ad essa niente è dato di scontato. La trasmissione naturale della fede, che nel Sud ha avuto il suo naturale epicentro, è ormai quasi un ricordo. E si parla di religiosità popolare, della sana eredità di fede e non dei fenomeni deviati di forme di superstizione o di vera e propria contaminazione malavitosa».

In che modo, allora, la chiesa della vecchia Questione meridionale riuscirà a rapportarsi di fronte al tecnicismo del Recovery plan e ai mutamenti che, almeno in teoria, sembrano profilarsi?
«È una grande sfida. Ma di fronte alla chiesa non c'è, non può esserci altra strada che quella di riuscirci. Se occorre cambiare registro, andrà fatto. E in fretta. C'è la grande occasione di poter recuperare in una volta sola tutto il tempo perduto. Occorrerà forse anche un cambio di atteggiamento. La chiesa deve saperlo fare, abbandonando, dove esistono, le logiche di un mero assistenzialismo. La società meridionale saprebbe poco che farsene di una chiesa assimilata a una semplice ong. E neppure la Chiesa, a sua volta, può andare con il cappello in mano a chiedere per sé o per tenere in vita qualche proprio privilegio. Se non è forza morale, se non è maestra di etica e di legalità, e se, infine, il tirare a campare sarà il ritmo stanco delle sue azioni, allora la strada è segnata. Ma non sarà così». 

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