Il Papa: «No alla decadenza di Roma». Ma oggi manca un'idea forte di futuro

Il Papa: «No alla decadenza di Roma». Ma oggi manca un'idea forte di futuro
di Mario Ajello
Martedì 4 Febbraio 2020, 08:15 - Ultimo agg. 13:59
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Un evento lampo.Così cominciano lecelebrazioni per i 150 anni di Roma Capitale. E va benissimo non eccedere nella retorica,ma trasmettere un senso di non piena consapevolezza rispetto a una data fondante e potenzial mente rifondante della nostra storia non sembra l’inizio migliore.

Ci si riferisce naturalmente al varo della legge del 3 febbraio 1871 con cui l'Italia si dotò della sua unica capitale possibile. Per un Paese che ha bisogno oggi più che mai di una Capitale nel pieno della sua forza non solo pratica e fattuale ma anche immaginifica e ideale, e per una metropoli che mai come adesso è vittima del declino che da anni le è stato imposto da una cattiva amministrazione.

Si tratta di un anniversario difficile da maneggiare, proprio perché cade in una fase di particolare degrado di questa città e di sofferenza quotidiana per i suoi cittadini. Ma senza un'idea forte di che cosa deve essere Roma e di come proiettarla nel futuro non si può avere un programma di celebrazioni e di iniziative all'altezza del Centocinquantenario.

Roma Capitale, 150 anni senza fondi: la lettera del Papa

E infatti latitano i progetti, non sono stati destinati i fondi ai 150 anni, non s'è fatta squadra né vige unità d'intenti tra Campidoglio e Palazzo Chigi e nell'attuale svalutazione di Roma quasi non stupisce questo approccio minimizzante riguardo a una grande occasione - come fu quella, ben colta dei 150 anni dello Stato unitario nel 2011 - che rischia di essere sprecata. Certo, c'è tempo ma molto poco per dare un senso a questa storia e serve però anche un'energia politica e culturale di cui non si può che lamentare gravemente l'assenza.

La partecipazione del Capo dello Stato, ieri allo spettacolo con Proietti, Bocelli e gli altri al teatro dell'Opera, dove è stato tagliato il nastro inaugurale di un evento di cui non si conosce il seguito, può racchiudere un senso di speranza. Contraddetto da tanti altri però. Ha impressionato la presenza sul palco, da vero protagonista, molto più della sindaca che ha letto uno sbrigativo discorso rituale di due minuti, del capo del governo della Chiesa - il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin - e l'assenza del capo del governo italiano, Conte, che è partito per Londra ma in tarda serata e avrebbe fatto in tempo a partecipare al breve evento. Il leader del Pd e governatore laziale ha mandato un suo assessore; ridotta all'osso la pattuglia dei ministri: Lamorgese, D'Incà, Guerini; assenti i vertici del partito più forte uscito dal voto del 2018, i 5 stelle. Per non dire del centrodestra, che non è corso in massa. Guardando la sala se ne traeva il segnale di scarso afflato per una celebrazione che, se ben studiata, se inserita in un'agenda di lungo periodo e di grande ambizione, avrebbe potuto e dovuto attirarne di più.

L'IPOTECA NORDISTA
C'è da chiedersi come mai, al netto di una serata che ha dato anche emozioni (Gigi Proietti che recita Trilussa nella Ninna nanna della guerra è una chicca), non c'è intorno al Centocinquantenario un clima di orgoglio patriottico e una mobilitazione pratica e identitaria che potrebbero fungere da contappasso rispetto al tracollo procurato a questa Capitale. Manca la fiducia in ciò che si è stati e che si potrà essere e la situazione ammorbante in cui versa Roma non è il lievito migliore per scuotere le coscienze e per attivare la visione del futuro. Ma gravano su questo anniversario zavorre più generali, come il discredito e lo spoliamento che il nordismo di ritorno infligge a questa capitale malamata e dall'inizio oggetto di pregiudizi - basti pensare a D'Azeglio contro Cavour che glorificava Roma come «capitale inevitabile» - e di deficit di comprensione. Ferdinand Gregorovius scriveva giustamente alla fine dell'Ottocento: «Gli italiani sono entrati in possesso di Roma e mai veramente la storia ha affidato a una nazione una sede tanto sublime e mai ha imposto un compito più difficile e un dovere più severo: conservare e rinnovare la città di Roma, ridiventare grandi a contatto con la sua grandezza».

E dev'esserci una questione di subconscio, o meglio un'ipocrisia malcelata, nella cattiva volontà di fare i conti con Roma, il suo passato, il suo avvenire. Quel «compito più difficile» di cui parla Gregorovius, cioè dare a Roma la sua vera anima di capitale nazionale e internazionale riconosciuta e condivisa, in pochi momenti storici ha funzionato e una di queste fasi sono stati i vent'anni del regime fascista.

Lo spiega bene, tra gli altri, lo storico Giovanni Belardelli sul prossimo numero della Rivista di Politica. E questa realtà fattuale - durante il Ventennio Roma diventa il vero centro d'Italia - invece di venire riconosciuta come tale sortisce il riflesso condizionato, nella cultura tuttora dominante, di non approcciarsi alla questione Capitale con lucidità, laicità, laboriosità. Troppi fardelli pesano dunque su un Centocinquantenario. Perciò bisogna liberarsene e in fretta, senza disertare un appuntamento cruciale.
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